Stenio Solinas
nostro inviato a Venezia
«Ho voluto fare un film sul cuore, su ciò che è lessenza della condizione umana. Nei momenti in cui tutto sembra perduto, quello che ci salva è proprio questo, è soltanto questo: fare appello ai sentimenti migliori che abbiamo, lamicizia, lamore, il saper soffrire per gli altri, laiutarsi gli uni con gli altri». Oliver Stone, il regista di World Trade Center, presentato ieri fuori concorso alla Mostra, non è Edmondo de Amicis, e noi non staremo qui a fare lelogio di Franchi, il nemico giurato del buon ragazzo Garrone. Lo fece già a suo tempo Umberto Eco e sappiamo come è andata a finire: il ragazzino carogna crescendo finisce in galera, il suo esaltatore diventa barone universitario. E tuttavia, niente è peggiore di un brutto film quanto un film sbagliato. E Stone ha fatto proprio questo.
Il battagliero cineasta naturalmente difende la sua creatura, e del resto è uno abituato ad affrontare le polemiche e a non nascondersi dietro un dito. I dati dincasso negli Stati Uniti gli danno oltretutto ragione: sedici milioni di dollari nelle prime tre settimane di programmazione, nella rosa dei primi cinque film più apprezzati dal pubblico. Al Festival è arrivato accompagnato dai veri protagonisti della storia che World Trade Centre racconta, ovvero lallora sergente di polizia John McLoughlin (interpretato nel film da Nicolas Cage), lagente Will Jimeno e le loro rispettive mogli, e questa presenza aggiunge commozione alla commozione: due che andarono a prestare soccorso quellundici, tragico, settembre, due che restarono intrappolati sotto le macerie, ci rimasero più di dodici ore, ne furono estratti grazie allostinazione di una coppia di marines non più in servizio e allabnegazione di chi scese nelle viscere delle Torri gemelle e li riportò in superficie. I ripetuti interventi chirurgici da loro subiti nei giorni e nei mesi successivi, il successivo status di pensionati perché inabili al servizio, la camminata claudicante e sofferta di McLoughlin per i ginocchi spappolati nel crollo, bastano e avanzano a sottolineare la giustezza e in fondo la necessità di un film che renda loro omaggio. Non sono però sufficienti a tradurlo in un bel film.
Stone insiste sulla veridicità del suo lavoro. Non ha inventato nulla, si è attenuto scrupolosamente a ciò che i suoi protagonisti hanno vissuto e sentito: i loro pensieri, le loro invocazioni, il reciproco farsi coraggio per tenere duro. E identico discorso vale per le due mogli che subirono prima lansia e lagonia del non sapere se i loro mariti fossero vivi o morti, la gioia alla notizia che erano sopravvissuti, di nuovo il dolore a vederli così piagati, così devastati. «Il film racconta anche una storia damore familiare, come e perché chi era sepolto fra le macerie trovò nelle persone care che stavano a casa la forza per resistere, come e perché questultime sperarono fino allultimo, non si diedero per vinte, ressero alla prova».
Sullaver fatto o no un film «politico», il regista è esplicito. «La politica divide, il cuore unisce. Nei momenti bui cè bisogno di una luce che aiuti a ritrovare la strada. NellAmerica prospera degli anni Ottanta e Novanta, dove si poteva toccare con mano una sorta di violenza esibita e compiaciuta, io ho fatto film fortemente critici. Ma quando è la paura a condizionare le menti e a rendere incerto lorizzonte cè bisogno di esempi in positivo che lo illuminino. Per il mio Paese questo è un brutto momento e per certi aspetti il dopo undici settembre si è rivelato addirittura peggiore di quanto quel giorno successe: siamo guidati dalla paura e dal desiderio di vendetta, abbiamo fatto una guerra sbagliata, leso i nostri diritti costituzionali. È proprio per questo che cè bisogno di tornare al centro dei rapporti umani, allamore, alla convivenza civile, alla esaltazione della semplicità».
Stone è un buon avvocato di ciò che fa, ma lerrore di fondo sta proprio nellassunto con cui lo giustifica: chi lha detto che basti raccontare la realtà, rappresentare la realtà, per fare un buon film, o un bel romanzo, o una qualsiasi opera darte? Davvero noi chiediamo al cinema, alla letteratura, alla pittura di essere lo specchio della vita, di raccontare la nostra quotidianità per quanto banale possa essere, per quanto comune essa si possa dimostrare? Che cosè che fa lo scarto fra unesistenza in quanto tale e la sua rappresentazione artistica? A un primo quarto dora impressionante, in cui ti sembra di essere lì, dentro le due Torri che stanno per accartocciarsi, segue un intrappolamento nelle macerie in cui la veridicità delle frasi dette risulta nella finzione più banale che drammatica, le visioni religiose che attraversano la mente di uno dei sepolti vivi più fumettistiche che mistiche, larrivo del marine salvatore più inquietante che rassicurante... Girato con sicuro mestiere, World Trade Center non sempre avvince e poco convince.
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