Erano semplici curiosi o spie? Per mesi tre dipendenti del Dipartimento di Stato hanno frugato nei file segreti di Barack Obama, John McCain e Hillary Clinton. E l’America teme un nuovo Watergate. Niente incursioni notturne di finti idraulici, questa volta. Nell’era della società digitale basta un clic per violare dossier in teoria superprotetti e con un po’ di fortuna si riesce persino a farla franca.
Ieri il capo della diplomazia Usa, Condoleezza Rice ha chiesto scusa all’America promettendo di fare piena luce. Ma la vicenda presenta tante, troppe anomalie. Quei tre funzionari, due dei quali sono stati licenziati e uno è sotto inchiesta disciplinare, hanno violato almeno cinque volte gli archivi dove vengono depositate le informazioni richieste per il rilascio del passaporto. E che informazioni: tutti quelle relative ai visti e ai viaggi all’estero compiuti negli anni precedenti, oltre a quelle sulla famiglia e su eventuali procedimenti giudiziari. In più il numero della Sicurezza Sociale, che è confidenziale e che, con i dovuti accorgimenti, permette l’accesso a un’ampia gamma di dati personali. Insomma, una vera miniera in una campagna elettorale che diventa di giorno in giorno più sporca.
Le carte di Obama sono state visitate tre volte, il 9 gennaio, il 21 febbraio e il 14 marzo; Hillary una, nell’estate del 2007, anche McCain una sola volta, in data imprecisata. Che cosa hanno trovato i dipendenti? Mistero. La Rice, seppur molto imbarazzata, ha tentato di minimizzare. «Riteniamo che fossero solo curiosi - ha precisato il suo portavoce, Sean McCormack -. E siamo certi che abbiano agito separatamente». Dunque, si tratterebbe di tre impiccioni. Ma Hillary non ci sta e ricorda che nel 1992 suo marito Bill subì le stesse attenzioni. A quell’epoca un funzionario aprì i suoi file, cercando riscontri alla voce secondo cui l’allora candidato alla Casa Bianca aveva cercato di rinunciare alla cittadinanza per non partire per il Vietnam. Ma non trovò nulla.
Il portavoce di Obama, Bill Burton, si è spinto oltre, denunciando «un'oltraggiosa violazione alla sicurezza e alla privacy» e ricordando che il governo «ha il dovere di proteggere i dati personali dei cittadini e non di usarli per finalità politiche». Come dire: c’è stato un complotto. Un’accusa pesante, che la Rice tende a escludere. «Io stessa sarei stata molto preoccupata se qualcuno avesse tentato di violare il mio fascicolo». Ma anche ammettendo la buona fede dei tre dipendenti, il caso appare imbarazzante per l’Amministrazione Bush.
Innanzitutto: i tre erano assunti a contratto: com’è possibile che avessero accesso a file così sensibili? E ancora: il sistema di allerta informatico aveva segnalato le loro incursioni, ma solo dopo diverse settimane i diretti superiori avrebbero preso provvedimenti, peraltro assai blandi considerata la gravità dei fatti. Eppure nessuno ha pensato di avvertire i vertici, che fino a giovedì a mezzogiorno sono rimasti all’oscuro. Solo quando un reporter ha chiesto all’ufficio stampa del ministero conferma delle voci di intrusioni nei file di Obama, è partita la verifica interna. E i capi hanno saputo. In piena campagna elettorale e in un’America sempre in allerta contro Al Qaida, non è un precedente rassicurante per i cittadini statunitensi; anche perché, ed è un’altra anomalia, il dipartimento di Giustizia non è stato interpellato.
L’inchiesta del dipartimento di Stato è stata affidata all’ispettore generale è sarà condotta «con la massima trasparenza e con la massima priorità».
Obama, intanto, si gode il momento. Già, perché questo presunto Watergate fa passare in secondo piano la vicenda di Jeremiah Wright, il suo padre spirituale finito alla ribalta per i discorsi violentemente antiamericani. Ieri, peraltro, il New York Times ha pubblicato una foto di dieci anni fa che mostra Clinton assieme allo stesso Wright alla Casa Bianca.
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