L’antifascismo e l’equivoco di Prodi

L’antifascismo e l’equivoco di Prodi

Gianni Baget Bozzo

Barbara Spinelli ritiene che la posizione della Casa delle libertà contrapponga legittimità e legalità, come se la richiesta della certezza del voto fosse un elemento etico e non un elemento politico. Ma in realtà si tratta di altro. Si tratta dello squilibrio che esiste nella stessa maggioranza e che gli incidenti di Milano hanno messo in luce con chiara evidenza.
I fischi a Letizia Moratti che portava la carrozzella di suo padre, antifascista, decorato con la medaglia d’argento della Liberazione, indicano che non era la liberazione l’impulso fondamentale di quella manifestazione del 25 aprile milanese, ma il fatto che il ministro Moratti era un ministro del governo Berlusconi e che l’ostilità a quel governo era vista nella medesima luce della celebrazione del 25 aprile.
La convinzione che il fascismo non fosse finito con la caduta del regime di Mussolini differenziò sempre l’antifascismo di lettura comunista da quello di lettura democratica e liberale. L’antifascismo liberale fu espresso efficacemente da Benedetto Croce, quando vide nel fascismo una parentesi nella storia nazionale italiana, dovuta a circostanze contingenti. E il fatto stesso che la liberazione fosse sentita come un evento popolare, che gli alleati fossero accolti come liberatori e non come nemici, nonostante essi avessero bombardato crudelmente e senza ragioni militari le nostre città, indicò chiaramente che il fascismo era stato imposto al popolo italiano da circostanze contingenti e che la tradizione di libertà era viva nel nostro paese. Ma vi è un’altra lettura, propria appunto dei comunisti e del Partito d’azione, che vede nel fascismo un elemento permanente della società italiana, della sua cultura e che la storia d’Italia è fatta di minoranze militanti contro un popolo reso amorfo e insensibile alla vita civile e politica e dalla sua educazione cattolica. Ciò ha condotto alla lettura della liberazione non come il fatto di tutto un popolo ma come quello di una minoranza, i partigiani combattenti, le minoranze attive che sole riscattarono l’Italia dalla macchia del regime fascista. Con ciò veniva diminuito il carattere popolare della liberazione e il fatto che essa aveva coinvolto tutto un popolo.
Le formazioni partigiane non erano in maggioranza comuniste ma democratiche: e va aggiunto a esse la resistenza dei deportati italiani in Germania, di cui appunto il padre della Moratti era esponente e rifiutarono di scambiare il loro ritorno in patria alla Repubblica sociale italiana. Né si può dimenticare il contributo delle forze regolari organizzate dal governo legittimo del Sud. E i tanti casi di vittime italiane delle repressione tedesca come i martiri di Cefalonia. La resistenza intesa solo come opera di una minoranza attiva, ha introdotto nel paese la convinzione che la democrazia coincida con la militanza nella sinistra e che chi non vota a sinistra sia fuori delle ragioni ideali, sociali e politiche che stanno alla base della società italiana ancora oggi a sessant’anni dalla fine delle ultime pagine del fascismo. La ricerca di un male occulto nella società italiana è quello che ha presieduto sia a Mani pulite sia alla lotta contro la mafia, come rivelazione della tesi comunista di un «doppio Stato» immanente nella Dc cioè nella forza principale della Democrazia Italia estesa coerentemente a tutti i suoi alleati.
La differenza tra minoranza rivoluzionaria e maggioranza passiva e abulica è il vero modo in cui si pone la distinzione tra legittimità e legalità, invoca la Spinelli. La sinistra ha di per sé la militanza e in ragione di questa militanza il titolo a governare una Italia in cui il popolo non di sinistra è visto, in quanto di destra, passibile di involuzione reazionaria. E così vengono giudicati il governo Berlusconi e l’opera dei suoi ministri. È qui che si innesca la differenza tra illegittimità politica e legalità reale: solo la sinistra ha in questa chiave, per il fatto di essere sinistra, il titolo a governare e dare forma alla democrazia. Interpretare la liberazione come vittoria della minoranza sulla maggioranza toglie alla liberazione dal fascismo il suo carattere di plebiscito popolare per la libertà e lo pone come opera soltanto di una parte di essa e, di fatto, della parte comunista di essa. È per questo che, nonostante gli appelli di Ciampi la festa della liberazione, che potrebbe essere una festa di tutto il popolo italiano, pagata al prezzo dei suoi morti nella guerra tra il ’40 e il ’43, divenuti così morti di seconda classe e le sofferenze immense del popolo durante la guerra sul suo territorio, non diviene una festa nazionale. E il fatto, prevedibile, che a Milano il 25 aprile sia diventata una festa antiberlusconiana delegittima questa maggioranza come maggioranza di tutta la nazione.

Lo spirito del 25 aprile in cui Prodi si richiama è gravato di questo equivoco che spiega in ultima analisi le ragioni per cui Berlusconi contesta il consenso dei voti dell’Unione perché è sotto di essi che si nasconde questa distinzione tra una legittimità ideologica che il nuovo governo rivendica per sé nello spirito del 25 aprile così inteso e la qualificazione del voto a destra come voto anomalo dal punto di vista dell’antifascismo visto come essenza della democrazia italiana.
bagetbozzo@ragionpolitica.it

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