L’«appellismo» è il nuovo gerovital dei progressisti

«Clicca qui per firmare l’appello». Quando si dice il progresso: un tempo, ma nemmeno tanto tempo fa, toccava scomodarsi almeno un poco per firmare gli appelli. Recarsi alla sede dell’Espresso o di Repubblica, a un banchetto, se c’era. Oppure prendere carta e penna, «aderire», porre l’adesione in una busta, affrancarla e spedirla. Insomma, si firmava nel senso proprio di apporre la propria firma («leggibile», come pretende la modulistica).
Oggi no, oggi c’è la RU486 degli appelli. Si clicca e via andare. Lo hanno fatto Matteo Pippa e Maria Rapacchietti, Caterina Giargia Bechis e Annalisa Gliubizzi-Fajardo, Gianfranco Rafalà e Franco Muscherà, Carmela Frustilla e Alessandro Saccenti, Alessandra Villani e Carmela Bavota, Luca Piscitelli e Giuseppe Sucameli, Graziano Barbatosta, Rocco Barbalinardo e Alessandro Barbagallo, Antonio Sconosciuto e Sara Saltimbanco, Massimo Chiavacci e Sabrina Porcedda, Sammy Postacchini e Noemi Pecunia, Claudio Tistarelli Natalicchi e Renzo Frinolli Puzzilli, Valentina Giangreco Marotta Puletti e Calogero Chiapparo, nomi presi a caso fra quelli in calce all’appello, macché, al grido disperato di Roberto Saviano sponsorizzato da Repubblica.
«Signor presidente del Consiglio, ritiri la legge sul processo breve»! (Seguita poi Saviano, ma sia detto en passant perché qui non è il caso di muovere appunti alla sua intelligenza, che «l’unico modo per accorciare i tempi è mettere i giudici, i consulenti, i tribunali nelle condizioni di velocizzare tutto». Lo vada a dire a Edy Pinatto, già giudice a Gela e pm a Milano: otto anni ci ha messo per depositare le motivazioni di una sentenza. Ritardo che ha consentito a diversi mafiosi condannati di tornare in libertà. E come lo velocizzi, uno così, se non mettendogli precisi limiti temporali?).
Fa comunque piacere che Repubblica abbia rispolverato l’appello, genere che si portava molto tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. E che assunse l’andamento di un Ballo Excelsior con quello che denunciava il commissario Calabresi quale responsabile della morte di Pinelli e con quell’altro, cui aderirono con piglio bersaglieresco noti pacifisti quali Giulio Carlo Argan, Tullio de Mauro, Umberto Eco e Natalia Ginzburg («Quando le masse si impegnano a combattere con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento, noi ci impegniamo con loro»).
Fa piacere perché da un lato ha sugli intellettuali, sulle «coscienze critiche della nazione», l’effetto del Gerovital: risveglia sopite velleità, estri che il «cliccare» ringalluzzisce. Dall’altro consente alle nuove leve (nuove, fresche di giornata «coscienze critiche») di cimentarsi nella ultrachic, ultra «sinceramente democratica» attività firmaiola per poi parlarne tutti da Fulvia sabato sera. Roberto Saviano, il capo manipolo, in primis. Per chi appellista non è, la ricomparsa dell’appello sotto la specie di prodotto vintage e dunque «di culto», è comunque motivo di ricreazione, come sempre accade quando vecchie e nuove glorie firmaiole sfilano sul red carpet di Repubblica: toh, c’e Gaetano Azzariti, toh c’è Sandro Veronesi, ma guarda chi si rivede, Vincenzo Consolo e c’è anche Fiorella Mannoia, Cristina Comencini, Mimmo Carlopresti! (nessuna emozione, noia sì, alla comparsa di due firmaioli storici e irriducibili: Dario Fo&Franca Rame).

Così che, tutto sommato, non resta che complimentarci con Repubblica e con Saviano. È grazie a loro, grazie alla ricomparsa dell’appellismo che possiamo fugare un dubbio tornando a esser certi che come quell’altra, quella ben nota, la mamma degli appellisti è pur sempre incinta.

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