L’arte romanica? Un falso nato nell’Ottocento

Lo storico catalano Xavier Barral denuncia la mediocrità delle ricostruzioni "in stile": quegli edifici in origine gioiosi e pieni di colore sono ora disadorni e spenti

L’arte romanica? Un falso nato nell’Ottocento

«Guardi dietro di lei, per esempio», mi dice Xavier Barral i Altet, professore emerito di storia dell’arte medievale all’Università di Rennes, già direttore del Museo della Catalogna, commissario di grandi mostre internazionali e infine autore, tra gli altri, di Contro l’arte romanica? Saggio su un passato reinventato (Jaca Book, pagg. 392, euro 42). Stiamo camminando nel minuscolo parco della basilica di Galliano, a Cantù, dove Barral i Altet è arrivato per un convegno. Entrambi volgiamo allora lo sguardo sulla chiesa dell’anno Mille che ci siamo appena lasciati alle spalle. «Crede che sia romanico?» mi chiede Barral. E spiega: «È solo l’idea che noi abbiamo del romanico. È stata restaurata pensando che il romanico sia un’architettura austera, incolore, priva di ornamenti. In realtà in epoca romanica sarebbe stata considerata una chiesa incompiuta, tutta da finire».

Il saggio di Barral, provocatorio fin dal titolo, parla proprio di questo: di un’idea di romanico molto poco medievale, di un’invenzione culturale tout court, la cui nascita lui colloca in un definito segmento storico: «Direi che si tratta di un’invenzione dell’Ottocento e del Novecento. Prima, il romanico non interessava a nessuno, lo si riscoprì solo quando cominciarono a sorgere i primi nazionalismi europei: ogni Paese voleva avere un romanico proprio. Si cominciò così a “reinventare” questo stile che in origine era policromo, affollato di presenze, di vita, di persone, e lo si ridusse, sulla scorta del romanticismo e in seguito del Concilio Vaticano II, a un’architettura scabra, severa, disadorna, progettata da artisti che si volevano anonimi, quando invece è provato che molti firmavano le proprie opere, e non solo quelle religiose. Insomma, si recuperò l’esatto contrario di quel che il romanico realmente fu».

Esempi di questo sono sparsi per tutta Europa, e Barral ne fa nel libro il minuzioso elenco. «In Italia - ci dice - troviamo del falso romanico nella cattedrale di Modena o nella chiesa di San Fedele a Como. A Milano, a Santa Maria presso San Celso, oppure, altro esempio, il nuovo altare maggiore di San Simpliciano. Non si è ancora ammesso che tanti monumenti considerati romanici sono frutto di successivi restauri che li hanno snaturati, col pretesto di recuperare un’ipotetica “nudità” romanica. Un giorno li toglieremo dalle copertine dei libri come monumenti romanici e li collocheremo, più giustamente, nei capitoli dell’Ottocento e del Novecento. Non si tratta, però, di un romanico falso, fatto “per essere venduto”, un po’ come si falsificano oggetti di antiquariato. È frutto degli interventi e degli studi dei nostri predecessori ed è un errore clamoroso averlo preso per romanico autentico».

Si potrebbe sostenere che questo Leitmotiv del tutto erroneo nella storia dell’arte, questo romanico inventato, non sia altro che l’eterno inevitabile pendant di ogni restauro artistico, ma è proprio a contatto con questa obiezione che l’attualità del saggio di Barral i Altet esce allo scoperto, facendosi polemica: «Occorre coraggio - dice Barral -. Prendiamo il terremoto in Abruzzo. Si devono ricostruire i monumenti religiosi esattamente così com’erano, nello stesso luogo? Questo servirebbe solo a consolarsi, pensando che così facendo si è vinta la fatalità del cataclisma. In realtà si dovrebbe sempre ricostruire nello stile del momento, come si faceva in epoca rinascimentale o barocca. Chi oserà proporre in Abruzzo una cattedrale in stile contemporaneo al posto dell’antica? È terribile dirlo, ma i terremoti sono sempre stati fonte di progresso architettonico, e il passato è lì per dimostrarcelo».

Se in epoca gotica si fossero ricostruiti tutti i monumenti romanici perduti in stile romanico, non ci sarebbe stato il gotico, e il libro di Barral racconta tra le righe proprio questo farsi e disfarsi dell’arte in direzione del futuro. «Nel XII secolo, per esempio, le chiese del IX non venivano ricostruite nello stile originario, ma piuttosto nello stile di quel periodo. Ci sono delle resistenze, certo. L’architettura non funziona senza dibattito: si veda la Fenice, a Venezia, per esempio, o il ponte di Calatrava: si doveva forse realizzarlo in vecchio stile? Ma così pensando non ci sarebbe stato nemmeno Rialto, solo un ponticello di legno. I politici, che durano poco, dovrebbero fare scelte coraggiose su cose che, come le opere architettoniche, durano più di loro.

Certo, gli architetti sono sempre primedonne e i politici cercano sempre un nome che gli faccia pubblicità, ma il problema sta nel vivere l’arte contemporanea. Perché oggi abbiamo una relazione così conflittuale con essa?».

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