Niente paura. In ufficio si potrà tranquillamente continuare a inviare mail, scrivendo che il capo è un incapace, la collega di scrivania una poco di buono e il nuovo stagista un imbranato. A tutelate il pettegolezzo aziendale c’è - e ci sarà sempre - lo Statuto dei lavoratori che proibisce il controllo della posta elettronica per fini disciplinari. Il panico si era sparso ieri quando l’Adnkronos aveva messo in rete due lanci d’agenzia dal titolo: «Sì della Cassazione al controllo delle mail aziendali. Confermato il licenziamento di un dipendente». «Licenziamento»? Qui allora siamo tutti q rischio. Per fortuna le cose non stanno così. La Suprema corte ha infatti preso in esame un caso limite in cui le mail c’entrano sì, ma solo fino a un certo punto. Il dipendente licenziato era infatti un vero truffatore che - per salvare la ghirba - si era, impropriamente, appellato alla tutela della privacy.
Morale della sentenza: «L’azienda può controllare la posta elettronica del dipendente a patto che questi controlli siano finalizzati a trovare riscontri ai comportamenti illeciti del dipendente stesso». Lo ha sancito la Cassazione nel convalidare un licenziamento per giusta causa disposto nei confronti di un dirigente bancario accusato di «aver divulgato, tramite messaggi di posta elettronica diretti ad estranei, notizie riservate relative ad un cliente della banca»; e di avere, circostanza ancora più grave, «posto in essere, grazie alle notizie in questione, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggio personale». Altro che pettegolezzi, qui ci troviamo dinanzi a un vero e proprio caso di insider trading
Il suo licenziamento era scattato il 15 marzo del 2004 in seguito ai controlli che l’istituto di credito aveva effettuato sulle mail del dirigente. Secondo piazza Cavour questo genere di controlli non lede «la dignità e la riservatezza del lavoratore» a patto che questo genere di controlli sia fatto non per verificare «l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma sia destinato ad dimostrare un comportamento che pone in pericolo l’immagine dell’azienda presso terzi». La validità del licenziamento inflitto al dirigente bancario addetto all’ufficio «Advisory center» era stata accertata dalla Corte d’Appello di Brescia il 13 ottobre 2009. Inutile la difesa del dirigente bancario in Cassazione volta a dimostrare che il controllo effettuato dal datore di lavoro sulla posta elettronica aziendale del dipendente era contraria alla norma dello Statuto dei lavoratori ma anche all’articolo 114 del decreto legislativo 196 del 2003 in materia di salvaguardia dei dati personali.
La sezione lavoro (sentenza 2722) ha respinto la tesi difensiva di Alfredo B. e ha osservato che nel caso in questione «il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti, ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti poi effettivamente riscontrati».
In altre parole, chiarisce piazza Cavour, il controllo delle mail aziendali era di «natura difensiva», dunque «non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo l’immagine dell’istituto bancario».
Più in generale la Cassazione ricorda che «la possibilità di tali controlli si ferma davanti al diritto alla riservatezza del dipendente al punto che la pur insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti, non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore».
Nel caso in questione, a consentire di «spiare» le mail del dipendente infedele, era stata una precedente denuncia che aveva così messo in preallarme la banca.
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