L’eredità che arricchisce la vena degli scrittori

I romanzi tornano a parlare della figura paterna in un mondo che sembra in crisi di valori. Genitori che cercano (invano?) di passare il testimone...

Il dottore sa tutto. Ha visto quella massa scura che batte contro il cervello. Non c’è neppure da scegliere. Tuo padre ha più di ottant’anni e le possibilità di sopravvivere a un bisturi che ti entra nell’anima sono meno di zero. «Lo porti a casa - dice -. Se fosse mio padre io farei così». Lui non ascolta, ti guarda con gli occhi liquidi. Noti una macchia marrone, scura, nell’iride verde. Ti accorgi che sta soffrendo, ma lo guardi e scorgi un sorriso di tenerezza. È contento che tu sia arrivato, che ha fatto in tempo a salutarti. Questa volta non ha nulla da dirti. Nessuna predica. Niente raccomandazioni. Il tempo sta finendo e lui sussurra: «Cerca solo di vivere, senza farti troppo male». Gli ultimi giorni sono i peggiori. Non parla più, praticamente non mangia. È un silenzio che hai solo voglia di cancellare in qualche modo. Fai una cosa stupida: prendi l’Ipod e appoggi le cuffiette al suo orecchio. Hai scaricato una canzone solo per lui. Senti la voce di Frank Sinatra. È My Way. Speri che riesca ad ascoltare, a capire. Non saprai mai se è stato davvero tutto inutile. Due giorni dopo è morto.
È una stagione, questa, in cui i romanzi tornano a interrogarsi sulla figura del padre. È come se un mondo se ne stesse andando poco alla volta. È il mondo delle certezze, dei confini stabili, dei muri che dividono e sorreggono, dei valori assoluti, di un Dio confinato nelle sue religioni, di Est e Ovest che non si confondono. La paura è di non ereditare tutto questo, di aver avuto in dote un mondo liquido, non più sostenuto dalle spalle di Atlante. È un’angoscia profonda: l’incapacità di leggere la realtà. Si viaggia di strada in strada, migranti e globalizzati, con un «Tutto città» vecchio di vent’anni. Orientarsi è sempre più difficile. È il tentativo di leggere una nuova era con le categorie ideologiche del Novecento. Teorie, concetti e pensieri che appartengono a una società senza bit e senza silicio, dove lavoro, famiglie, residenze, cittadinanze e appartenenze non erano precarie. Le vecchie teorie sono saltate, le nuove non sono neppure in fabbrica. Risultato: chi verrà dopo di noi non ha alcuna certezza da ereditare. Nessuna visione del mondo a cui ribellarsi. Nessuna identità. Solo tecnologia e qualche volta una casa.
È quello che intuisce Hanif Kureishi, mezzosangue sospeso tra due mondi, in Il mio orecchio sul cuore: «Per tutta la vita mio padre sembra essere stato tormentato da una domanda: come fai a trovare qualcosa che abbia in sé un significato, un valore, che non possa essere messo in dubbio? E questa domanda conduce a un’altra: come dovrei vivere?». È la nostalgia che prova Orhan Pamuk, il giorno che riceve il Nobel, per la casa di famiglia e per tutto ciò che lì dentro sopravvive: «Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l'Asia. Stare vicino all'acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere».
È tutto il senso di Patrimonio (Einaudi) di Philip Roth. La questione è: cosa mi ha lasciato mio padre? È l’eredità: «Volevo la mia parte dell’attivo che, contro ogni pronostico, era stato accumulato in una vita da questo padre caparbio e risoluto. Volevo i soldi perché erano suoi, e perché ero suo figlio e avevo diritto alla mia parte, e li volevo perché erano, se non un vero e proprio pezzo della sua pellaccia, qualcosa di simile alla concretizzazione di tutti gli ostacoli che aveva superato. Era quello che aveva da darmi, quello che avrebbe dovuto darmi...». Non è il denaro. È il simbolo. È una visione del mondo, un’identità, una chiave di lettura per interpretare la realtà. È un orizzonte di valori che ti permettono di non naufragare. È un cielo pieno di stelle e un sestante per seguire la rotta.
Hermann Roth è un padre antico. «Inflessibile». È uno che dice al figlio: «Io credo che ci sono due tipi (tra la gente dico) di Filosofie. La gente che gli importa e quella che non gli importa, la gente che fa e quella che procrastina e non fa né aiuta mai. Faccio molte battaglie con la mia coscienza, ma lotto contro i pensieri sbagliati». È così che l’uomo, fragile, vecchio, magro, senza forze, quasi cieco e condannato dai verdetti delle biopsie costringe il figlio a chiedersi: chi sono? È rendersi conto che c’è un patrimonio da ereditare. Non sono soldi. Non sono ricordi, ma è viscere e sangue.
Roland Barthes profetizzava: «La morte del padre toglierà alla letteratura molti suoi piaceri.

Se non c’è più un padre perché raccontare storie? Ogni racconto non si riconduce forse all’Edipo? Raccontare è cercare la propria origine. Oggi si chiude con l’Edipo come col racconto: non si ama più, non si teme più, non si racconta più».

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