Può la morte avere un senso? Ora che Musharraf si è dimesso, ora che il figlio maggiore ed erede sta tornando in Pakistan a proseguire il lavoro della madre, vorrei ricordare il sacrificio di Benazir Bhutto. Aveva solo 54 anni, era una donna bellissima e forte, era tornata in Pakistan per tentare di favorire elezioni democratiche. Oppure per morire, come si sapeva che sarebbe accaduto, come lei accettò che accadesse. La sua biografia è importante, travagliata e attraente: era la figlia primogenita del deposto primo ministro Zulfikar Ali Bhutto, ucciso dai militari. Laureata in scienze politiche a Harvard, master a Oxford in politica, filosofia ed economia, non aveva ancora vent'anni e già lavorava a fianco di suo padre. Quando nel 1979 il generale Zia-Ul-Haq fece uccidere Ali Bhutto, a lei toccarono isolamento e arresti domiciliari.
Nel 1988 finalmente si tennero le elezioni, ed il PPP, il partito del popolo, stravinse, lei fu nominata primo ministro. Aveva 35 anni Benazir, divenne la più giovane e la prima donna a capo del governo di un Paese musulmano, un'onta senza precedenti per l'Islam e i militari. Era bella, educata in Occidente, moderna, emancipata. L'effetto mediatico fu grande, l'odio di più. Fu destituita nel 1990 dall'allora presidente della Repubblica con accuse di corruzione mai provate. Nello stesso anno il suo partito perse le elezioni. Per tre anni fu a capo dell'opposizione contro il governo di Nawaz Sharif, finché nel 1993 non si tenne una nuova consultazione che vide la vittoria del PPP.
Benazir Bhutto tornò a essere primo ministro, nel 1996 nuove accuse, concentrate sulle attività imprenditoriali del marito, Asif Ali Zardari, ministro nel suo secondo governo, le costarono una condanna a cinque anni di carcere e una multa di otto milioni di dollari. Il marito la galera se la fece, fino al 2004, lei scelse di rimanere all'estero, nonostante la Corte Suprema avesse rovesciato la sentenza, definendola un complotto. Poi gli Stati Uniti strapparono al generale e presidente Musharraf la promessa di libere elezioni, e l'autorizzazione a farla rientrare. Lei accettò, «perché sono ottimista e bisogna pur provarci». L'hanno uccisa dei terroristi islamici, questo è sicuro, lei aveva denunciato le infiltrazioni di Al Qaida nel governo, la codardia di Musharraf.
Quando l'hanno ammazzata, due mesi dopo il ritorno in patria, ho scritto su Il Giornale: «Onore a una grande donna e a un grande leader. Guai a chi non capisce che è morta anche per noi». Oggi continua a sembrarmi la frase giusta per renderle omaggio.
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