L’esibizionista che faceva la morale a tutti

Fu il padre della ginnastica mattutina, dei bagni freddi e dei week-end in campagna. Antesignano del moderno igienismo, attraversò la Francia a piedi abbandonandosi alle sue fantasticherie nelle foreste, dormendo sotto le stelle, cibandosi di bacche. Ebbe il culto della Natura e criticò con ferocia le sofisticazioni della vita cittadina.
Su queste basi, il Nostro elaborò una sua pedagogia. In un celebre libro immaginò di dover crescere un essere umano di sesso maschile dalla nascita al matrimonio, avendone completa potestà. Queste le regole principali. Fino a 12 anni, il fanciullo doveva conoscere il mondo mediante i sensi, per personale esperienza. Nessuno doveva creargli preconcetti. Quindi, mai un libro in mano. Tutt’al più, imparare solo a leggere. Insegnamento religioso non prima del diciottesimo anno d’età, poiché la fede deve essere vagliata dall’intelletto, evitando la trappola delle superstizioni. Bandite, infine, le esperienze amorose fino al matrimonio. Meglio, molto meglio, la masturbazione. Ottima tra giovanetti per evitare le malattie veneree. Raccomandabile anche ai vecchi che si risparmieranno lo stress di gimcane sessuali sul campo. Tessendo l’elogio della pratica, il Nostro dichiarò di esserle personalmente devoto e di utilizzarla ultrasessantenne.
Sull’educazione delle donne, il pedagogo aveva, per l’epoca, idee altrettanto controcorrente. Nel ’700, il gentil sesso era frivolo e licenzioso, soprattutto nei ceti alti. Il Nostro ingiunse invece alle madri di ricominciare a allattare i figli, ripudiando l’uso allora diffuso delle nutrici. In tal modo, sentenziò, avrebbero adempiuto fisicamente e moralmente la loro missione naturale. La formazione delle fanciulle doveva poi interamente essere commisurata sull’uomo. Piacergli, essergli utile, rendergli la vita dolce e piacevole, tale il dovere di ciascuna.
Orfano di madre, che morì dandolo alla luce, fu a 12 anni messo a bottega dal padre da una certa signorina Lambercier perché imparasse il mestiere di orafo. Mademoiselle, piuttosto tirannica, lo pigliava a sculacciate ogni volta che non filava dritto. Il fanciullo concepì uno straordinario piacere per questa punizione e la provocava a più non posso. Gli rimase il gusto esibizionistico di mostrare il deretano alle donne. A Torino, dove soggiornò, trovandosi di fronte a un gruppo di giovanette che stavano lavando i panni a una fontana, si tirò giù i pantaloni e mostrò loro il sedere. Per poco, non fu ammazzato di botte da un energumeno che voleva dargli una lezione. Nonostante la paura, il commento che ha lasciato ai posteri sulla bravata è il seguente: «Il piacere folle che provavo a farglielo vedere è indescrivibile».
A 16 anni fuggì di casa. Fu accolto da una tale Madame de Warens, ventiduenne, che lo convertì dal calvinismo al cristianesimo, e se lo portò a letto. La relazione, tra andirivieni, durò una decina d’anni. Lui la chiamava «mammina», lei «piccino». Divideva le grazie di madame col giardiniere e col suo pieno consenso. Quando l’uomo morì, il Nostro ne prese il posto e il guardaroba.
Finita questa storia, si accasò a Parigi con una lavandaia, tale Thérèse Lavasseur. Senza sposarla, ne ebbe cinque figli. Tutti, appena nati, furono portati dalla levatrice direttamente al brefotrofio prima che fosse loro imposto un nome. Di nessuno il Nostro seppe più nulla, nonostante sia poi passato alla storia come grande educatore di fanciulli e principe dei pedagoghi. Si giustificò dicendo che i bambini lo avrebbero distratto dagli studi e che, affidandoli allo Stato, dava loro la migliore delle educazioni: quella caldeggiata nella Repubblica di Platone.
Seminò dolori ma, fingendo di non accorgersene, commiserava soprattutto se stesso. Querulo, diceva di sé: «Sono in lotta ogni giorno tra dolore e morte. Non dormo da 30 anni. Cosa ci può essere di comune tra le miserie degli altri e le mie? La mia situazione è unica e non ha precedenti». Oltremodo vanitoso, aggiungeva: «Mostratemi un uomo migliore di me, un cuore più dolce, più affettuoso, più sensibile. La mia consolazione sta nella stima che provo per me».
Prima di affermarsi, tentò un numero incredibile di mestieri: incisore, lacchè, coppiere, seminarista, precettore, copista, segretario. Si mantenne poi come annotatore musicale, ma più spesso a scrocco di amici altolocati coi quali era tanto più altezzoso, quanto più ne riceveva. Divenne famoso con un’operetta contro la proprietà privata, corruttrice della naturale bontà dell’uomo, fonte di ogni crimine, causa delle guerre. Coniò il motto «i frutti sono di tutti, la terra di nessuno», fatto proprio dalla schiera di rivoluzionari comunisteggianti dei due secoli successivi, da Robespierre, a Marx, da Bakunin a Stalin.
Vecchio, sposò la Lavasseur dichiarando, contestualmente, di non avere «mai provato per lei una briciola d’amore».

Divenne un paranoico convinto che il mondo intero, invidioso della sua grandezza, approntasse contro di lui un gigantesco complotto. Morì però nel suo letto, non prima di aver ripudiato il cattolicesimo per tornare alla religione ginevrina delle sue origini.
Chi era?

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