Fra i ragazzi che ancora fecero a tempo a partecipare alla Seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, Giano Accame fu uno dei primi a dare intellettualmente il suo addio al fascismo, e però per tutta la sua vita gli rimase l’amara consapevolezza che un Paese che non ha orgoglio del proprio passato, rispetto del proprio presente e fede nel proprio avvenire è un Paese miserabile.
Così, il quindicenne che si era arruolato nella X Mas negli ultimi giorni del ’45, divenne il trentenne che negli anni Sessanta ipotizzò con Randolfo Pacciardi, eroe antifranchista della guerra di Spagna, una Nuova repubblica in stile gollista, il quarantenne che all’indomani del ’68, favorevole alla contestazione studentesca anti-sistema, ruppe con il settimanale per cui scriveva, Il Borghese, che in essa vedeva solo i capelloni e la sovversione, il cinquantenne che teorizzò intorno al Psi di Bettino Craxi l’idea di un socialismo tricolore che recuperasse il meglio appunto della lotta sociale e dell’idea nazionale, non più in contrasto, ma in accordo, l’attuazione di quel Risorgimento che era stato élitario e non di popolo e che il Novecento delle masse e dei partiti totalitari non era riuscito a portare a reale compimento.
Figlio di un ufficiale di marina, sposato con la figlia di uno dei grandi eroi della prima guerra mondiale, il mutilato e medaglia d’oro Carlo Delcroix, Accame fu per quasi tutta la sua vita un italiano che si ritrovava esule in una patria che era la sua, ma che faceva di tutto per tenerlo a distanza. Come spesso accade alle persone che hanno un carattere, delle idee e dei princìpi, rimase a lungo ai margini della nuova Italia intellettuale che era nata dalla rovina del fascismo e della sconfitta, ma si vide tenuto in sospetto e in dispetto da tutto quel mondo di destra reducistico che di quella rovina e di quella sconfitta aveva fatto la propria ragion d’essere. Così, quando nel 1961 inventò come segretario generale del Centro di vita italiana il Primo incontro romano della Cultura e cominciò a portare da noi Ernst Jünger e Gabriel Marcel, James Burham e John Dos Passos, Vintila Horia e Thomas Molnar, Odisseo Elitis e Michel Déon, a sinistra fecero finta di niente o diedero l’allarme per quella lista di «reazionari» e a destra li si derubricò al rango di carneadi, di signor nessuno, insomma. Elitis, a cui toccò il compito di chiudere una delle sezioni degli incontri, anni dopo avrà il Premio Nobel, Déon, che ne presiedette un altro, divenne Accademico di Francia e quanto agli altri nomi, parlano da sé.
Questa apertura internazionale, non confliggeva con la disperata ricerca di un orgoglio nazionale. Accame era, sotto questo aspetto, un degno erede di Mario Missiroli, il Missiroli che nel primo Novecento aveva introdotto Sorel in Italia, cercato di spiegare la laicità dello Stato a papa Pio X e a papa Benedetto XV, il fascismo a Mussolini e il socialismo a Turati, il Missiroli convinto che la grandezza e la dannazione dell’Italia stessero nel pensare più in grande di quello che la sua taglia di «nazione media», per non dire «piccola», le poteva consentire... C’era troppa storia, troppa arte, troppa intelligenza, troppa ambizione per una semplice penisola a forma di stivale... Così, nuovamente, era attraverso una dimensione culturale, uno scambio fecondo di idee, che si poteva ridare all’Italia quella primazia che la impotenza politica le negava. Ancora negli anni Sessanta, quando il nome di Céline giace da noi dimenticato, l’unico italiano chiamato a parlarne nei prestigiosi Cahiers de l’Herne, a fianco di firme come Henry Miller e Leo Spitzer, André Gide e Jack Kerouac, Paul Morand e Marcel Aymé, è Giano Accame.
Giornalista economico, prima al Fiorino, poi a Italia oggi, la conoscenza delle leggi dell’economia non si tramutò mai in lui in feticcio liberista, in adorazione del libero mercato. Glielo impediva la profonda conoscenza di Pound e dei grandi eretici del capitalismo come Ferdinando Ritter, ma ancora più una vena poetica e solidaristica che vedeva nell’economico non un corpo separato, ma una delle funzioni di ogni retta società umana, al servizio della politica e non forza a sé. Tutto, alla fine, rientrava in quella dimensione di grandezza nazionale, che faceva di lui, per il tipo di letture fatte, di educazione ricevuta, un classico uomo del Novecento, faustiano nel suo uso della scienza e della tecnica, europeo nel suo riconoscersi debitore di un pensiero e di una cultura.
Proprio perché a disagio in un Paese troppo amato e dal quale non ha avuto quello che il suo ingegno avrebbe meritato, Accame ha attraversato il cinquantennio postbellico con la dignità di quella frase di Guglielmo il Taciturno: «Non occorre riuscire per perseverare, né sperare per intraprendere». Alto, robusto, elegante, aveva dell’esistenza una concezione per molti versi spartana. «Se penso al mio luogo ideale per scrivere, è una cuccetta di bordo, una tenda militare» mi disse una volta. Stava in una bellissima casa sul Lungotevere, ma come se stesse accampato.
La caduta del Muro di Berlino, la fine del comunismo, Tangentopoli e il crollo della prima Repubblica, il dibattito sulle riforme istituzionali e sulla modernizzazione del Parlamento confermarono la bontà delle intuizioni di un tempo e lo misero con naturalezza al centro del dibattito politico e culturale, suggeritore di una destra che per la prima volta aveva un ruolo in partita, interlocutore di una sinistra che non riusciva più a interpretare le esigenze del Paese. Antiche ruggini e sospetti si sciolsero, un diverso clima si instaurò. Fu direttore del Secolo d’Italia, collaboratore principe delle pagine culturali del Giornale negli anni caldi della discesa in campo di Berlusconi, evitò saggiamente candidature alla Camera e al Senato, guardò alla nascita di Alleanza nazionale e alla svolta di Fiuggi con realismo, unico modo trovato per uscire dal Novecento delle ideologie e delle contrapposizioni. Non essendosi mai sentito un reduce, avendo regolato i propri conti intellettuali e personali molto tempo prima, non lo interessava la sterile polemica sulla fedeltà o no a un patrimonio ideale, né aveva bisogno di costruirsi una verginità di immagine. Criticò l’eccesso di enfasi, le abiure maldestre e le abiure in malafede, ma era consapevole che la fine delle ideologie imponeva nuovi schieramenti, alleanze, prospettive.
Con lui se ne va un italiano che non fu mai né arci né anti, atteggiamenti che facevano a pugni
con la sua sobrietà di ligure. Per tutta la vita ha cercato di essere fedele a quella immagine di ragazzo quindicenne che, nel giorno della sconfitta, resta dalla parte di chi ha perduto. È morto in armonia con sé stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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