«L’impresa è la nostra ricchezza Però non c’è nella costituzione»

Ma avete fatto caso al fatto che nella Costituzione italiana non compare mai la parola impresa? Beh ci ha fatto caso, in effetti è tutt’altro che una mancanza da poco, Sergio Travaglia. E non in modo fortuito. Questo avvocato fiumano, naturalizzato milanese, al tema della produzione, e del benessere che deriva dalla capacità di produrre, ha dedicato una vita: per vent’anni ai vertici di Unilever si è poi dedicato alla politica. Ecco che allora questo convinto liberale, ha all’attivo svariati libri tra cui Maledetta industria, rimastoci malissimo della poca cura che la «Carta costituzionale più bella del mondo» riserva a chi si assume il rischio di creare lavoro e beni di consumo, ha deciso di scrivere un battagliero pamphlet: Il manifesto dell’impresa (Mind, pagg. 128, euro 14, nella foto a lato). Lo scopo: creare un clima culturale e politico, molto più favorevole a chi vuole continuare a produrre e innovare nel nostro Paese. Insomma Travaglia è convinto che «Se la Repubblica italiana invece di essere fondata sul lavoro fosse fondata sull’impresa, il nostro pil pro capite sarebbe oggi molto più elevato». Ecco come racconta al Giornale la genesi e le linee guida del suo progetto di “rivoluzione” culturale.
Avvocato Travaglia come si è accorto che nella Costituzione non appare mai la parola impresa?
«Io mi sono sempre occupato del tema, e un giorno mi sono detto vediamo cosa posso trovare nella fonte primaria della nostra giurisprudenza... Quando ho inserito nel computer il lemma per fare la ricerca ed è uscita la scritta: “La parola non esiste” sono rimasto paralizzato. Mi è sembrato un epitaffio e badi bene che invece di impresa nella costituzione europea si parla...».
E lei di questo fatto si è dato una spiegazione ?
«Certo, la nostra carta costituzionale è nata essenzialmente dal concorso delle forze cattoliche e di quelle social-comuniste. Nessuna di queste due galassie politiche aveva molta simpatia per l’Impresa, l’idea del profitto era visto da entrambe con accezione negativa... Il risultato è stato che l’imprenditoria è diventato il fantasma, il grande assente del nostro sistema di valori. Con conseguenze gravissime per l’equilibrio sociale. Ci è mancato quello spirito calvinista che hanno Paesi più nordici. O meglio la capacità di impresa degli italiani è altissima ma la politica la ignora».
Ma come potremmo intervenire? A partire dalla Costituzione?
«Si potrebbe partire dall’articolo 4 che è uno dei pochi animati da spirito liberale. Ora nel finale recita: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Io vorrei completarlo così: “Alla luce delle sue grandi potenzialità, l’Impresa rappresenta il fattore essenziale del progresso economico e gode dei diritti relativi allo scopo”».
Faccio l’avvocato del diavolo: non è troppo astratto?
«No, sarebbe un punto di partenza forte per cambiare le convinzioni degli italiani. Come dice Ortega y Gasset: “Il cittadino moderno non è solidale con le cause del suo benessere”. Invece servono modelli nuovi far capire agli Italiani che se qualcosa di buono è accaduto nel nostro Paese è accaduto negli anni tra il 1950 e il 1960. Bisogna rendere quel periodo un’icona culturale».
Ma perché gli imprenditori sin qui non si sono mai fatti sentire?
«I motivi sono tanti. Da una parte sono sempre reticenti a spingersi oltre il panorama della gestione industriale.

Dall’altro c’è un errore di prospettiva: si sono sempre concentrati sulla propaganda del prodotto e mai della struttura che lo crea. Quindi a tutti piacciono gli oggetti ma si demonizza chi li fa. Ma non si può non comunicare con la società, se no alla fine ci si trova soli e schiacciati dall’Irap».

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