L’incubo «1984» vissuto giorno per giorno

«Una bella, quieta giornata piena di sole, con un breve acquazzone nel pomeriggio. Due arcobaleni paralleli, uno molto più pallido dell’altro. A volte accade, quando ci sono sole e pioggia contemporaneamente. Mare calmo. Sembra che il toro abbia sedici mesi, essendo nato nel luglio 1947. Quindi porta bene la sua età». L’uomo che il 4 dicembre 1948 scrive questa nota piuttosto anonima è George Orwell. Il 4 dicembre 1948 è una data importante. Poco prima di annotare, come sempre, il tempo e altre minuzie, Orwell ha terminato il dattiloscritto di un romanzo a lungo intitolato L’ultimo uomo sulla terra prima di assumere quello nuovo, oggi conosciuto in tutti gli angoli del mondo: 1984. Uscirà l’anno seguente. L’autore, quel 4 dicembre, probabilmente sa di essere spacciato. Per questo proprio in quei giorni ha liquidato affitto e altre questioni burocratiche a Canonbury Square, Islington: sa che non tornerà mai più a Londra. La tubercolosi ha minato il suo fisico. I polmoni funzionano male. Non riesce a camminare a lungo. La malattia, scrive nei Diari, lo ha costretto a una «vita senile», anche se nel 1948 ha soltanto quarantacinque anni. Eppure, rinunciando a tutto il resto, trova le forze per «scrivere il doppio» rispetto al solito. Il luogo dove si trova, a Jura, nelle Isole Egadi, di certo non aiuta: è splendido ma si gela. Ancora meno ha aiutato il naufragio, nell’acqua ghiacciata, nel golfo di Corryvreckan.
I Diari, in gran parte inediti in Italia e di recente usciti in Inghilterra (Diaries, a cura di Peter Davison, pagg. 520, sterline 20, ed. Harvill Secker) sono davvero strani. Alcune parti, relative agli anni della Seconda guerra mondiale, furono concepite per la pubblicazione (in Italia sono uscite per Mondadori col titolo Diari di guerra). Altre erano invece «domestiche». Quasi mai, in un caso e nell’altro, si accenna ai propri libri e ai propri cari, viceversa in evidenza nelle lettere. Le note si vanno asciugando mese dopo mese. Sono torrenziali negli anni Trenta, e si riducono progressivamente a poche righe, perfino a poche parole, negli anni Quaranta. Negli anni Trenta trova largo spazio l’attualità politica: nel 1936 Orwell sostiene di essere pronto per la «sicura» prossima guerra mondiale, nel 1940 liquida i bolscevichi come una «oligarchia» criminale (8.6.1940: «le purghe non mi hanno mai sorpreso, sono connaturate al potere bolscevico») e soprattutto prevede che l’alleanza con il Comintern e Stalin determinerà la sconfitta dell’intera sinistra europea (22.3.1942: «Essendo legati da una specie di alleanza, anche noi ne usciremo sconfitti insieme con loro»). Occhio lungo e ben allenato nella guerra civile di Spagna. Tranne, forse, nel caso di Churchill, del quale per un momento, all’inizio della guerra, auspica le dimissioni immediate, «necessarie» per vincere il conflitto. Cambierà idea quasi subito. Il tutto senza recedere di un passo dal socialismo di cui resta sostenitore fino all’ultimo respiro. Orwell è un rivoluzionario, nonostante la vulgata (fondata su una lettura discutibile di 1984) lo dipinga «pentito» e approdato al riformismo. All’appello mancano i diari compilati in Catalogna: sono stati rubati a Barcellona dall’antenato del Kgb, la Nkvd, e sono tuttora chiusi a chiave in un archivio di Mosca.
Progressivamente le opere d’arte, i romanzi, vampirizzano l’autore già consunto dalla malattia. La stesura di 1984, iniziata nel 1946, è una lotta, un vero e proprio corpo a corpo mortale. La prima redazione non lo soddisfa. Riprende da capo. Tornato a Jura dal sanatorio, si riduce a battere a macchina a letto, mentre tossisce sangue. Il libro esce nel 1949. E lui muore nel gennaio del 1950.
Orwell mostra alcune fissazioni singolari: dal numero di uova prodotto dalle galline (annotato per anni con una scrupolosità pazzesca) fino alla presenza costante dei topi (un esempio, 12 giugno 1947: «I ratti hanno aggredito a Ardlussa due bambini, come sempre hanno attaccato il viso»). Quest’ultima ossessione finirà nella scena chiave di 1984 in cui Winston cede di schianto al Grande Fratello per evitare il contatto con una gabbia contenente ratti. Ci sono solo tre o quattro annotazioni di un certo peso, risalenti agli anni della stesura di 1984, e sono tutte legate alla tubercolosi, direttamente o meno. Una è il racconto del naufragio nel gorgo del golfo di Corryvreckan, episodio subito dopo il quale le condizioni di Orwell degenerano. Le altre descrivono lo stato di lucidità apparente di chi ha appena superato una crisi: sembra di poter ragionare come si deve, ma il torpore subentra immediato, i ricordi non stanno insieme, proprio come i procedimenti logici e risulta impossibile scrivere perfino uno «stupido articolo di giornale». Sono pagine drammatiche: in quel momento Orwell è assillato dal romanzo incompiuto.
Malato, isolato, consapevole di avere le ore contate: forse Orwell stesso si sentiva come l’Ultimo uomo sulla terra del suo romanzo.

E per questo si convinse che doveva lasciare una testimonianza, un monito nel caso una specie realmente umana fosse tornata a popolare il pianeta dopo la sbornia ideologica e la carneficina della prima metà del secolo. Lo fece, a costo della vita.

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