Fece a passo di marcia i primi decenni della vita, poi piombò in una specie di atarassia in cui dette il meglio di sé. A 16 anni lasciò il palazzo di famiglia a Palermo per frequentare il liceo a Roma. Pochi giorni dopo larrivo nella capitale, fu uccisa a pochi isolati di distanza, da un barone suo amante, unillustre parente, la contessa Giulia Trigona, che sette anni prima aveva tenuto a battesimo il futuro Umberto II. Il Nostro partecipò alle esequie e proseguì la vita di studente. Si iscrisse a Legge alla Sapienza, ma scoppiata la Grande guerra partì per il fronte. Fatto prigioniero, evase e vagò a lungo per lEuropa prima di potere rientrare in Sicilia. Per qualche anno ancora, tornata la pace, viaggiò. Si spinse fino alla Lettonia dove impalmò la principessa Alessandra Wolff-Stomersee, psicanalista, e la portò a Palermo.
Da allora, aveva poco più di 30 anni, non si mosse quasi più. La moglie, invece, che mal sopportava la Sicilia, faceva la spola tra il palazzo del marito e il suo in Lettonia dove trascorreva la maggior parte dellanno. Il loro fu, a lungo, un matrimonio epistolare. Tanto che il Nostro si fece fama di impotente e fu sospettato di omosessualità. Di questa, però, non ci sono prove. La coppia, in ogni modo, non ebbe figli anche quando Licy, come era chiamata familiarmente Alessandra, si rassegnò a vivere nellisola. Tra loro si stabilì un affetto intenso, ma sterile.
Nellillustre palazzo conducevano vite agli antipodi. Licy passava la notte sui libri di psicanalisi senza però esercitare la professione. Esausta, andava a dormire allalba. Alle sette, invece, si alzava il marito per cominciare la sua invariabile giornata. Uscito di casa, il Nostro andava fino alla pasticceria dove faceva colazione e sedeva a leggere. Si fermava anche ore se voleva iniziare e finire, per esempio, un romanzo di Balzac. Era, infatti, un lettore insaziabile. E quello, in fondo, era il suo mestiere. Altri non ne aveva. Le rendite del casato bastavano per vivere più che decorosamente e mantenere il palazzo. La sua esistenza era, daltronde, modesta. Non spendeva che per i molti libri e qualche raro viaggio. Adorava le letterature francese e inglese. Aveva sempre con sé un testo di Shakespeare perché, come raccontò Licy, «poteva consolarlo nel caso avesse visto qualcosa di sgradevole nei suoi percorsi». Ma la sua curiosità letteraria non aveva confini e le lingue non erano un ostacolo. Conosceva, oltre al francese e allinglese, il tedesco, il russo e lo spagnolo.
Terminata la sosta nella pasticceria, il Nostro cominciava il giro delle librerie. Durava dalle due alle tre ore. Più a lungo si fermava da Flaccovio, la preferita. Alluna, andava in unaltra pasticceria e pasteggiava con dolciumi. A palazzo il pranzo non era previsto, dato che Licy dormiva ancora. Rientrava a casa nel pomeriggio, con linseparabile borsone pieno dei libri acquistati, frammisti a pasticcini, zucchine e altre cibarie per la cena. In tutto quel tempo aveva scambiato, sì e no, quattro parole. «Delle mie sedici ore di veglia - disse di sé - almeno dieci trascorrono in solitudine».
A scrivere iniziò a 57 anni, tre prima di morire. A quel tempo, modificando il suo tran tran, si era circondato di giovani. Uno, Gioacchino, lo adottò. A un altro, Francesco Orlando, divenuto poi esimio critico, impartì lezioni di letteratura inglese e francese tre volte la settimana. Fu per lui che cominciò a scrivere una storia delle due letterature. Molti aneddoti, fini osservazioni, nessuna presunzione accademica. Soprattutto, narrava le vite degli scrittori, convinto come Sainte-Beuve, che in esse si celasse la chiave delle opere. In tutto mille pagine, pubblicate decenni dopo la sua scomparsa.
Al romanzo, invece, si dedicò per caso. Accompagnando Lucio, un cugino poeta, a un congresso letterario, sentì il Nobel Eugenio Montale lodarlo. Ne rimase colpito e stimolato. «Con la certezza matematica - rievocò qualche tempo dopo - di non essere più stupido, mi sono seduto alla scrivania e ho scritto un romanzo». Era una storia dell800 che però nessun editore volle pubblicare. Il Nostro diceva rassegnato: «Temo di avere scritto una porcheria».
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