L’INTERVISTA GIGI D’ALESSIO

Caro Gigi D’Alessio, e i neomelodici?
«Io mi offendevo quasi quando mi definivano neomelodico perché mi sembrava una brutta etichetta, tutte le etichette sono sempre limitative e riduttive».
Si spieghi.
«A Napoli c’è sempre stato un grande fermento musicale, da Mario Merola a Nino D’Angelo. Tutti, me compreso, abbiamo cercato di dare un nuovo volto alla canzone napoletana. Prima si parlava sempre di Malafemmena, o di cose del genere, adesso c’è una produzione enorme e rinnovata».
Però?
«Finora nessuno, e mi ci metto di mezzo anch’io, è riuscito a scrivere la canzone di riferimento. Ma forse una spiegazione c’è e non è solo legata alla qualità intrinseca dei brani».
E quale sarebbe?
«Forse è la sovrabbondanza di produzione. Ci sono troppe canzoni e questo in sostanza impedisce che la gente si affezioni profondamente a un brano, che lo faccia proprio. Oggi c’è troppa velocità, troppa alternanza. Intanto, una volta c’era senz’altro più tempo per far diventare “nostre” le singole canzoni».
E poi?
«Poi, senza dubbio, c’è molta passione ma non ci sono case discografiche. Io i primi dischi li regalavo per poter poi andare a suonare ai matrimoni. Anche Pino Daniele mi ha detto di aver iniziato così. Diciamo che nel resto d’Italia si fanno dischi per venderli. Da noi per andare ai matrimoni. Questa è certamente una grande differenza».


E poi?
«Il circo mediatico che si è creato attorno a questo fenomeno sembra più che altro ghettizzarlo. E da Roma in su si vede più che altro come un aspetto più folcloristico che musicale ed è un errore perché ogni canzone, a modo suo, è un’opera d’arte da non trascurare».

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