L’INTERVISTA MARTIN LANDAU

Sembrava una «mission impossibile», ma è così che Martin Landau sbaragliò la concorrenza all'Actor's Studios: con una parte dove si fingeva ubriaco fu selezionato fra 2mila candidati insieme con un «certo» Steve Mc Queen. Da allora è divenuto Mister mille facce: Rufio in «Cleopatra», Leonard in «Intrigo internazionale», Rollin Hand in «Mission impossible», Bela Lugosi in «Ed Wood» che gli valse l'Oscar nel ’95. Da Hitchcock ad Allen passando per Burton e Ford Coppola. Ora, Landau è a Milano per il «Miff», film festival milanese di cinema internazionale, giunto alla nona edizione con una novità: i film, tutti in anteprima, vengono premiati per categorie proprio come ad Hollywood. Lui, vincitore nel 2005, si divide fra il compito di giurato - sezione lungometraggi - e quello di fan della compagna, di origini siciliane, Gretchen Baker, in gara come regista del corto «Finding Grandma», storia di una donna che perde la madre e si trova sola con un figlio. «Ci siamo conosciuti anni fa: il suo primo film, il mio peggior film», esordisce Landau con una battuta ben assestata, poi aggiusta il tiro: «Qualcuno ha detto che si respira l'atmosfera di Fellini nel film».
Un gran complimento: ancora le spiace per la mancata partecipazione a «Otto e mezzo»?
«Giravo Cleopatra. Fellini mi offrì la parte del regista che Mastroianni, regista a sua volta nel film, avrebbe scritturato. Purtroppo non ci furono i tempi e Fellini eliminò il personaggio».
Andò meglio con Nanni Loy in «Rosolino Paternò»...
«Ricordo Nino (Manfredi, ndr): recitava in italiano, gesticolava, era meraviglioso. Provò in inglese: non riusciva a muovere più nemmeno un dito».
La crisi globale ha intaccato anche il cinema?
«Radicalmente. Festival come questi sono fondamentali. Oggi si ricercano solo effetti speciali: in alcuni cinema se l'attore beve tè al limone diffondono profumo di limone. Ehi, ma devi essere tu in grado di far assaporare al pubblico quella tazza di te».
È la tecnologia: anche lei nella serie Tv «Spazio 1999» viveva in un futuro che alla fine è arrivato: non le piace?
«Combattevamo le paure di quei tempi, passavamo con la fantasia attraverso due pianeti, era un po' il sogno di Kissinger. Oggi il cinema non veicola più valori sani. Come nella vita: in America per dire “prego” non diciamo più “you are welcome”, bensì “no problem”. È il presupposto sbagliato.»
Dopo aver avuto allievi come Jack Nicholson o Harvey Keitel, insegnare recitazione deve essere dura!
«Un tempo si iniziava dal teatro, oggi tutti pensano alla Tv. Il bravo attore non ride, non piange: cerca di non ridere e di non piangere, come si farebbe nella realtà. Dico sempre che bisogna essere “bloody good”, altrimenti si può far un altro mestiere».
Come si fa ad essere «bloody good»?
«Se ti faccio una battuta, ridi. Ma sono bravo se riderai dopo la sesta volta che te l'avrò fatta».
Sembra una «mission impossible»: qual è la sua oggi?
«Essere felice di quello che faccio e non perdere la memoria».
Facciamo un test allora: era il '58 e sul set di «Intrigo internazionale» fece perdere la pazienza a Cary Grant perché avevate lo stesso sarto...


«Lo decise Hitchcock! Cary era così: a pranzo pagavamo sempre io o altri. Dopo due settimane, ci disse. “Ho notato che pagate sempre voi: bene, oggi facciamo Dutch”».
Cioè... alla romana?!
Esatto, un ottimo attore.

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