L’INTERVISTA PIPPO DELBONO

All'inizio un operaio si sveste, indossa la tuta da lavoro, piega scrupolosamente i suoi abiti prima di riporli nell'armadietto. Questo rito - nel senso tutt'altro che metaforico del termine - si ripete sette volte con altrettanti operai: proprio quanti ne sono morti durante l'incendio scoppiato nella fabbrica Thyssenkrupp di Torino, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007. Eppure «Menzogna», lo spettacolo di Pippo Delbono in scena al Piccolo Studio da domenica fino al 31 ottobre, non racconta un fatto di cronaca e non è neppure una pièce di denuncia. «O almeno non è soltanto questo», spiega Delbono. «La definizione di “teatro civile“ ai miei lavori va un po' stretta. A me interessa scandagliare l'animo umano, capire perché e come nasce il male». Il male, cioè una categoria che spesso il teatro di ricerca scambia per l'ingiustizia, che invece è solo una delle sue componenti. «È vero» ammette il regista: «io infatti non ho voluto limitare il mio sguardo alla situazione contingente, ma accedere a un discorso universale. Per questa ragione lo spettacolo prende di mira gli archetipi del potere, l'istinto di sopraffazione così come si manifesta in situazioni esemplari, come quella della Thyssen». I sette operai morti due anni fa sono per il regista «emblematici delle migliaia di morti atroci che avvengono lontane dai riflettori, e che quindi non hanno cittadinanza nel mondo della comunicazione. Il male autentico, quello che non può essere attutito dalla sua spettacolarizzazione, si manifesta proprio nella trascuratezza, in contesti oscuri e macilenti come una fabbrica obsoleta». Cinquant'anni esatti, una fama internazionale che pochi registi italiani possono vantare, Delbono è autore di un teatro all'insegna della saturazione emotiva, della contaminazione tra stili, del cortocircuito tra arte e vita. Anche ne «La menzogna» si assiste a un accumulo di citazioni e di registri espressivi, di spunti autobiografici e rimandi a una dimensione rituale, «sacra» in senso lato. Nel bel mezzo dello spettacolo compare a lungo, in un video rubato dal web, anche padre Alex Zanotelli, l'ex direttore di Nigrizia, il mensile dei Comboniani spesso al centro delle polemiche per i suoi giudizi aspri sulla chiesa e la società italiane. «Zanotelli è una sorta di “ultimo dei Mohicani“, un uomo che crede in una religione libera dal potere, ancora fedele ai principi evangelici. Di lui ammiro la coerenza che l'ha portato a scegliere, dopo aver fatto coraggiosamente il giornalista, di andare a vivere in una baraccopoli africana, in cui è stato tutti i giorni a contatto con la morte. È un uomo che non mente». Già, la «menzogna» che dà il titolo allo spettacolo, ma di cui è difficile individuare una precisa consistenza. Per Delbono è una «dimensione pervasiva, è la vera caratteristica di fondo del nostro presente.

Nel caso della Thyssen la falsità ha assunto la forma dell'ipocrisia dei manager, di quell'ottimismo aziendale, di quella finta professionalità sotto cui si nascondevano la determinazione nel voler realizzare dei profitti e l'indifferenza nei confronti dei lavoratori».

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