L’uomo che cambierà il Paese

L’uomo che cambierà il Paese

Nicolas Sarkozy l’insorto. L’uomo che dall’Eliseo vuole condurre una specie di rivoluzione in Francia. Insorto, dunque, contro la Francia com’è. O meglio un qualche aspetto della Francia. Ma insorto contro chi? Sarkozy appartiene allo stesso partito che detiene l’Eliseo da otto anni e forma i governi. Ha militato nei ranghi del movimento gollista nelle sue varie definizioni e sigle. È cresciuto da attivista a dirigente, da devoto seguace di Jacques Chirac a suo contestatore. Non ha mai contestato, però, il gollismo, anche se il primo insorto della Francia contemporanea è stato, dopo tutto, Charles De Gaulle. Come spesso accade, i «rivoluzionari» si presentano come restauratori: in tale contesto, del «vero» gollismo. Si potrebbe chiamare, quello di Sarkozy, «neo-gollismo», se non fosse per il fatto che il primo a proclamarsi neogollista fu proprio Chirac. Che era stato un militante, cresciuto negli stessi ranghi.
Qual è dunque la differenza, a parte gli ovvi contrasti personali? Caratteriali, probabilmente, anche se il bilancio di un politico, dunque di un aspirante statista, può essere tirato solo alla fine della sua carriera, e quella di Sarkozy è appena cominciata. Caratteriali perché Chirac ha quasi sempre navigato verso quello che nel contesto politico di un altro Paese si potrebbe chiamare «centro», cioè al margine della «maggioranza naturale» dell’ultimo mezzo secolo, che si chiama Droite. Più tardi è stato indotto dagli eventi a prediligere una tale strategia, ma aveva mostrato anche prima di esservi portato.
Sarkozy è, o è stato fino al momento della sua elezione, il contrario. Non è un estremista, però ama porre le scelte in termini secchi, netti, a volte esasperati. Gli piace più un confronto che assomigli a uno scontro che non il compromesso. Sa anch’egli manovrare nei corridoi, in mancanza dei quali non si diventa neppure sindaco e figuriamoci presidente della Repubblica, in Francia come altrove, però agli elettori, e prima di questi ai «grandi elettori», che sono i partecipanti alle assise di partito, ama proporre formule semplificate. Sul «rilancio della Francia», per esempio. Come ogni Paese, anche questo può essere giudicato considerando soprattutto i più o i meno, i pregi o i difetti, il passato o il futuro. Chirac, e forse ancora più di lui il suo ultimo primo ministro De Villepin, hanno mostrato di preferire i riferimenti al passato, Sarkozy parla soprattutto del futuro. Dunque dei difetti più che dei pregi, delle debolezze più che dei punti di forza. Si è presentato come l’uomo con la volontà di cambiare quello che deve essere cambiato onde rimettere la Francia in gara nel Gran Premio della Globalizzazione. Dunque snellire, abbreviare, indebolire il potere e il ruolo delle lobbies a cominciare da quella sindacale ma anche, ad esempio, di quella tecnocratica dei dirigenti usciti dall’Ena, la «università dei politici».
Sarkozy propone riforme che i suoi avversari, che giocano anche sul diffuso antiamericanismo, preferiscono bollare come «made in Usa» ma di cui i sostenitori rivendicano l’originalità tutta francese e sono disposti, semmai, ad ammettere una qualche parentela con l’esperimento tentato e tanto riuscito subito appena Oltremanica un quarto di secolo fa da Margaret Thatcher. Ci aveva provato già da ministro delle Finanze, energico, autoritario, simile nei modi, dissero, a un «patron», a un imprenditore. Ma aveva tentato di mettere in riga anche una parte del mondo imprenditoriale: per esempio di convincere le catene di supermercati, le assicurazioni e le banche ad abbassare i prezzi per restituire potere di acquisto ai francesi. Della Francia questo «globalizzatore» ha saputo difendere gli interessi nei fori internazionali senza troppi riguardi. Come ogni statista francese non è mai stato pronto a ridurre incondizionatamente il potere dello Stato; preferisce usarlo, però, solo in caso di necessità, quando sia in gioco l’interesse complessivo del Paese.
In questo ed altri campi Sarkozy ama scegliere formule semplici. Qualcuno ha detto sempliciste e lo ha paragonato per questo a Rudy Giuliani. Una critica benaugurale, se è vero che l’ex sindaco-sceriffo di New York è in questo momento il candidato più forte nella gara alla Casa Bianca nel 2008. Altri hanno scavato nella storia e non nella cronaca, e hanno tirato fuori un grande francese che nel fisico e nella nascita potrebbe assomigliare di più a Nicolas Sarkozy. Un uomo notevolmente più piccolo del gigantesco De Gaulle, di origine straniera, con molto temperamento, molta ambizione, all’occorrenza la mano di ferro. Sarkozy non si è sottratto alle ironie forse implicite del paragone e si è richiamato in più di un discorso anche ufficiale, anche durante la campagna elettorale, a Napoleone Bonaparte. Come Napoleone questo appassionato patriota, addirittura lirico in certe sue effusioni, non ha una goccia di sangue francese nelle vene. La sua famiglia viene, anzi, da un’Europa geograficamente prossima ma storicamente lontana e distinta. Una famiglia della piccola nobiltà magiara, profughi dall’Ungheria divenuta comunista. Profughi poveri, nonostante il lignaggio. Più l’infusione da parte materna di una famiglia originaria della comunità ebraica di Salonicco. Non solo in America, va ricordato, possono succedere queste cose. La Francia è dal punto di vista etnico l’«America d’Europa», ha ricevuto più immigranti di ogni altro Paese del Vecchio Continente, addirittura di più degli Stati Uniti nei decenni in cui questi ultimi avevano chiuso il portone sotto la Statua della Libertà. Il «super patriottismo» di Sarkozy si spiega forse anche con questo, ma non si tratta solo di un riflesso di neo-cittadini. La sua difesa della identità culturale francese è sincera quanto appassionata. Non è il solo nazionalista di questo Paese, ma si distingue per tracciare confini soprattutto nei confronti delle culture estranee. A differenza di quanto emerso dalla presidenza Chirac, egli è tutt’altro che antiamericano ed è giunto al punto di mostrare ammirazione per George Bush, un po’ attenuata negli ultimi tempi per opportunità elettorale ma anche per l’oggettivo declino dell’attuale presidente Usa.
La linea di Sarkozy si è definita ultimamente soprattutto in una frase, un invito agli Stati Uniti: «Che gli americani ci lascino liberi di essere loro amici». Nei confronti dell’Europa Sarkozy può apparire più tiepido di Chirac, anche se l’europeismo di quest’ultimo non è mai apparso davvero profondo. Più importante per Sarkozy è l’urgenza di «definire» la Francia e dunque l’Europa nei confronti dell’Islam: incluso l’appello a un più severo mantenimento dell’ordine anche nei confronti degli immigrati, con una formula coerente: una riforma legislativa di una legge sugli immigrati che risale al 1905, per tenere conto delle «nuove esigenze e realtà del Paese». Ma, avverte Sarkozy, si tratta di «aggiustamenti tecnici che aiutino l’Islam a integrarsi in una società democratica, pluralista e laica come quella francese». Assimilazione, dunque, e questo da parte di un politico che non abbraccia la «religione» spesso laicista della Francia ma si richiama alla «tradizione cristiana» dell’Europa e ha citato più volte Giovanni Paolo II come un «eroe».


Tutto si ritrova, infine, nella difesa, anche restaurativa dei «valori»: non in opposizione alla modernità, ma a una deviazione vecchia di quasi quarant’anni che proprio in Francia è nata diffondendosi in Europa e che Sarkozy riassume in una cifra: «Il Sessantotto». Un riferimento che spiega molto.
Alberto Pasolini Zanelli

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