L’uomo che ha fondato 60 tv ora sgobba nei campi «Ho tratto il vino dall’acqua»

Avrebbe potuto trovarsi casa fra la Scandinavia e il Maghreb, in una delle tante nazioni dove ha creato le sue 60 e passa televisioni, da Canal Plus a Canal Jimmy, da Ciné Cinéma a Planet. Invece ha preferito prendere la residenza in Italia, dove fu presidente e amministratore delegato di Tele+, progenitrice di Sky e di tutti i canali satellitari a pagamento. Forse era scritto nel destino che il francese Michel Thoulouze, 66 anni, per quasi un ventennio macchina da guerra di Canal Plus nel mondo, proseguisse da pensionato la sua carriera fra i canali d’acqua dopo aver molto praticato quelli dell’etere.
Oggi Thoulouze abita a Sant’Erasmo, isola di appena 700 abitanti nella laguna di Venezia, grande circa la metà del centro storico, 3,2 chilometri quadrati, famosa da sempre come l’«orto dei dogi», perché fin dai tempi della Repubblica Veneta vi si coltivano le uniche verdure che il mare concede alla terra, a cominciare dal carciofo violetto di Sant’Erasmo, con quella prelibatezza per intenditori che sono le castraùre, il germoglio apicale della pianta. Fa il contadino. Ha i calli sulle dita. Gira, come tutti qui, su un’Ape scassata. «Sono diventato uno di loro perché non ho lo yacht. Anche mia figlia Mathilde, come regalo per i suoi 14 anni, ha voluto un’Ape». In alternativa usa la topeta, che sarebbe una piccola topa - honni soit qui mal y pense - e cioè la tipica imbarcazione utilizzata dai veneziani per il trasporto delle merci.
Pensionato è una definizione impropria, nel caso di Thoulouze. Infatti nel 2009 gli è scappato di aprire Kurd1, l’ennesima Tv, a Erbil, nel Kurdistan iracheno, tuttora bisognosa delle sue cure saltuarie. Ma il Berlusconi francese da dieci anni ha cuore, testa, occhi e mani solo per la creatura che più d’ogni altra gli ha rapito l’anima. Si chiama Orto di Venezia, come il luogo dove nasce. Un vino bianco. L’unico che esce dall’unica cantina, aperta da lui, esistente nella città della Serenissima. Appena 15.000 bottiglie l’anno. «Una sola terra può dare un solo vino». Per farlo ha liberato dai rovi 11 ettari e su 4,5 ha messo a dimora i vigneti che erano stati abbandonati dal XVI secolo. «Ho creato il mio paesaggio». Insomma, ha fatto ancora una volta il creativo, il mestiere che gli è riuscito meglio nella vita.
Thoulouze è partito da una mappa settecentesca su cui c’era scritto «Vigna del Nobil uomo». Ha speso un patrimonio e chiesto aiuto ai suoi amici Alain Graillot, artefice in Côtes du Rhône del superbo Crozes Hermitage («“Produrre un vino a Venezia? Ma tu sei pazzo!”, è stata la sua prima reazione quando gli ho esposto il mio progetto»), e Claude Bourguignon, agronomo di Romanée Conti in Borgogna, che prima di fargli piantare le vigne gli ha ordinato di preparare i terreni seminando per tre anni orzo, sorgo e avena, secondo il metodo «duro su duro» e cioè senza dissodare: «Mai un segno d’aratro, mai fertilizzanti chimici, mai diserbanti».
A Sant’Erasmo lo conoscono tutti e tutti lo chiamano per nome. Idem a Venezia. Potete fare voi stessi un test dal tabaccaio di piazzale Roma, appena fuori dal garage comunale. Provate a comprare qualche pacchetto di Gitanes senza filtro e quello vi chiederà: «Sono per Michel?». La cantina dell’Orto, di un rosso squillante, si trova vicino all’imbarcadero dove attracca il vaporetto. Accanto sorge, un po’ malridotta, la Casa Bianca, è così che viene chiamata, e il verbo sorgere pare quello giusto, trattandosi del più alto edificio della laguna di Venezia. Alto si fa per dire: due piani oltre il pianterreno, il secondo dei quali occupato da un’immensa stanza con 14 finestre. Apri gli scuri, le imposte di legno, e lo sguardo spazia a 360 gradi su terra e mare. Da fermare il respiro. Ci arrivi salendo una scala di gradini smussati dai piedi di intere generazioni. Sul primo pianerottolo è incorniciata una lettera autografa di Napoleone Bonaparte, giusto per ricordare dov’è nato il proprietario, che però si dice fiero di pagare le tasse in Italia fin dal 2000. «Sono stati i contadini a darmi l’idea: “Ma lo sai, Michel, che hai comprato la più bella terra dell’isola?”, mi dicevano. Io manco lo sapevo. Per loro è un crimine vedere anche una sola zolla abbandonata. Fino a ieri gli unici filari di vigna erano quelli appena fuori dalla porta di ogni casa, dai quali gli ortolani ricavano il vino di famiglia. Mi hanno regalato qualche bottiglia, raccomandandomi: “Tienila in frigorifero”. Perché?, ho chiesto io. “Altrimenti scoppia”».
L’abitazione di Thoulouze è a cinque minuti di Ape dalla cantina. L’ha ristrutturata sullo stile dei casoni in cui amava appostarsi Ernest Hemingway per la caccia all’anatra. Una porzione del tetto è ancora in canna palustre. Alla parete del salone è appeso l’originale di una foto di Mario Giacomelli mai pubblicata, il seguito della celebre serie di scatti dei «pretini» che danzano tenendosi per mano: alcuni sacerdoti cantano a squarciagola, uno suona la tromba e un altro l’armonium, il seminarista più giovane stappa una bottiglia di vino, dalla spalliera di una sedia pende una borsetta da donna. Probabilmente una carnevalata. «Bevono», sintetizza Thoulouze. Il terrazzo alla veneziana, tipica pavimentazione che si ottiene da un’unica gettata di graniglia e cocciopesto, è stato levigato con semi di grano anziché con lo smeriglio. «È una tecnica conosciuta solo dagli artigiani di Sant’Erasmo». Thoulouze li ha mandati a fare la stessa cosa nelle tre case che il suo amico Philippe Starck ha comprato a Burano, dove l’anno scorso l’eccentrico designer ha voluto risposarsi per la seconda volta con Yasmine Abdellatif, un replay (in barca) delle nozze celebrate a Parigi nel 2007.
L’ex patron di Canal Plus ha avuto una vita sentimentale movimentata. La sua prima compagna è stata Martine Laroche-Joubert, la più nota reporter di guerra di France 2, l’ultima rimasta a Bagdad durante la guerra del Golfo, la prima a entrare in Libia alla caduta di Muammar Gheddafi. Dalla loro unione è nato Constant, oggi ingegnere chimico. È durata sei anni. Poi è stato per altri sei con Kelly McGillis, la protagonista di Witness - Il testimone e di Top Gun. L’attrice adesso si occupa di un ristorante in Florida, nell’isola di Key West, il punto più a sud degli Stati Uniti, dove andavano in villeggiatura il presidente Harry Truman e il drammaturgo Tennessee Williams e dove Thoulouze aveva acquistato una villa di legno in stile vittoriano. Infine, a 50 anni, s’è sposato con Patricia Ricard, nipote del defunto Paul Ricard, creatore del Pastis, l’aperitivo alcolico a base d’anice divenuto uno dei simboli della Francia. La signora ha ereditato, insieme con la figlia Mathilde avuta da Thoulouze, il gruppo Pernod Ricard, leader mondiale degli alcolici di prestigio che spazia dallo champagne Mumm al whisky Chivas Regal, fino all’amaro Ramazzotti. «Fu Mathilde, quando aveva 6 anni, a piantare il primo vitigno dell’Orto sull’isola di Sant’Erasmo». Buon sangue non mente.
Mi parli della sua famiglia d’origine.
«Sono nato nel 1945 a Pézenas, nel sud della Francia, in Linguadoca. Mia madre Luce era casalinga, mio padre André generale dell’aeronautica. Fu addetto diplomatico nelle ambasciate francesi di Roma e di Londra. In realtà faceva la spia».
La spia?
«Esatto. Pilotava lo stesso aereo, il Morane-Saulnier, di Enrico Mattei. Ce n’erano solo dieci al mondo, di velivoli così. Il presidente dell’Eni finanziava il Fronte di liberazione algerino e mio padre difendeva gli interessi della Francia mitragliando nel Mediterraneo le barche che portavano armi ai guerriglieri. Di qui il sospetto che i servizi segreti parigini nel 1962 avessero organizzato l’incidente nel quale morì Mattei».
Sospetto infondato?
«Tanti anni dopo ne parlai con mio padre, che era stato chiamato a Bascapè, nel Pavese, a esaminare i resti del Morane-Saulnier di Mattei. Mi giurò che lo schianto non fu provocato da un attentato, bensì da un azzardo. Mentre infuriava un violento temporale, il presidente dell’Eni spaventò il suo pilota, Irnerio Bertuzzi, ingiungendogli di atterrare a tutti i costi».
Com’è arrivato alla televisione?
«Da giornalista, dopo la laurea in economia a Parigi. Sono stato inviato di France Télévisions, la Rai francese, e poi capo dei servizi giornalistici. È lì che ho conosciuto Martine Laroche-Joubert».
Presto lasciata per Kelly McGillis.
«Insieme a Kelly, nel 1987, ebbi uno dei miei primi incontri ravvicinati con Venezia. Eravamo al Festival del cinema, dov’era in concorso Accadde in paradiso, che lei interpretava con Timothy Hutton. Il regista Alan Rudolph ebbe la bella pensata di dichiarare in conferenza stampa che non amava il suo film e che avrebbe preferito partecipare con Moderns. Figurarsi Kelly, aveva un diavolo per capello. All’una di notte decise che doveva fare un bagno nuda in mare per calmarsi. Camminammo per un paio di chilometri sulla spiaggia del Lido. Non appena, completamente spogliata, stava per tuffarsi in acqua, clic, clic, clic, una grandinata di flash: i fotografi ci avevano seguito. Rientrammo di corsa all’hotel Excelsior, lei ancora nuda e io in mutande. Le tenni le mie scarpe davanti alla faccia per impedire ai paparazzi di riprenderla. Ma l’avventura peggiore capitò al Tokyo film festival, dove gli organizzatori le avevano imposto di presentarsi da sola. “Posso portare il mio parrucchiere personale?”, chiese. Certamente, le risposero. Ero io. All’arrivo i giapponesi mi avevano organizzato un giro dimostrativo presso i più rinomati coiffeur della capitale...».
Perché s’è stabilito a Venezia?
«Sul finire degli anni Novanta vivevo tra Milano e Parigi. Mia moglie continuava a rimproverarmi: “Non ne posso più di stare in appartamenti enormi. Voglio una casa piccola con una vista grande”. Mentre la portavo a pranzo alla Locanda Cipriani di Torcello, siamo passati in motoscafo qui davanti. È stato un colpo di fulmine. Quattro anni di trattative. Nessuno sapeva fissare il prezzo della tenuta perché a Sant’Erasmo nessuno compra e nessuno vende».
E adesso fa il vitivinicoltore.
«Ho imparato dai miei amici contadini. Da secoli sfruttano un sistema di drenaggio dei loro terreni molto originale. La bassa marea funziona da pompa naturale: quando il livello del mare si abbassa, ognuno apre la chiavica del proprio canale e così l’acqua piovana di troppo defluisce in laguna. Non le dico l’emozione il giorno in cui il Magistrato alle acque mi ha consegnato le chiavi delle mie due paratoie».
Che altro le hanno insegnato gli ortolani di Sant’Erasmo?
«“Michel, non affidarti agli enologi”. Avevano ragione. Il vino è solo uva fermentata. L’enologo ci mette dentro tante cose per giustificare il suo compenso. Ne esce un vino tecnico. L’Orto è lavoro nei campi, non rettifiche in cantina. Sono andato a prendermi alcuni antichi vitigni nel più grande vivaio del mondo. Si trova a Rauscedo, in Friuli, e nessuno lo sa. Pensi che il primo vivaio della Francia fa 5 milioni di barbatelle e lì ne producono 50 milioni. Una cattedrale della natura. Per fare il mio vino ho scelto 60 per cento di Malvasia istriana della costa dalmata, 30 per cento di Vermentino e 10 per cento di Fiano d’Avellino».
Un vitigno «terrone» in laguna? Le bruciano la cantina.
«Il Fiano regala un vino molto stretto. Non è un vino puttana che ti dà tutti gli aromi e poi non ha niente dietro. Adesso l’Orto è conosciuto come la Malvasia del doge. Questo dicembre è il vino del mese nel ristorante di Alain Ducasse all’hotel Plaza Athénée di Parigi, tre stelle Michelin».
Quello dove il cenone di San Silvestro costa 1.250 euro a persona?
«Eh, lo so, in Francia il ricarico sui vini è pazzesco, cinque volte il loro prezzo alla cantina. Nei ristoranti di Venezia un bicchiere costa la metà della bottiglia, in quelli di Parigi costa come la bottiglia».
Perché ha lasciato la Tv per il vino?
«Non mi piaceva più l’ambiente. Era un delirio collettivo: “Puntiamo su Internet, è il futuro, ci farà ricchi”. Abbiamo speso cifre folli per comprare siti, anziché investire in canali e programmi migliori. Nel mio lavoro ho sempre cercato la perfezione. Se tu pensi ai soldi prima di pensare al prodotto, è finita. I soldi vengono dopo. Ormai viviamo in un mondo virtuale, ma io continuo a ritenere che la qualità valga più della quotazione in Borsa. Ho chiesto al cantiere Amadi di Burano una topeta unica, dipinta con i colori della Serenissima, rosso e giallo oro. Tre mesi di baruffe, perché sostenevano di non esser capaci di fare il rosso. Alla fine mi hanno detto: “Ne serve qualcossa come campion”. Allora ho capito. Gli ho portato una cassa di vino rosso e ho avuto la mia topeta. Adesso tutti in laguna vogliono la barca con i colori di Venezia».
Crede che il Mose vi salverà dall’acqua alta?
«L’acqua alta è per i turisti, che amano fotografarsi con gli stivaloni in piazza San Marco. Non la considero una catastrofe. In Olanda hanno gli stessi problemi di Venezia e li hanno risolti da mezzo secolo. Là le chiuse scendono, qui si alzano. Non so perché a Venezia sia stato scelto questo Mose che si solleva con l’alta marea. Quando io vedo una cosa che già funziona bene, in genere tendo a copiarla».
Per fare una televisione che serve?
«Lei mi chiama e mi dice: “Voglio una Tv”. E io gliela creo, partendo da zero. I curdi non sapevano nemmeno usare i computer, perché Saddam Hussein ne aveva proibito l’uso. Ora Kurd1 si può vedere in tutto il mondo. Le svelo un segreto».
Dica.
«Per lanciare una Tv, le conviene rivolgersi alle major statunitensi. Ha bisogno di Titanic? Glielo noleggiano a 1.000 dollari. Invece gli europei per un film qualsiasi gliene chiederanno 15.000. Ecco perché il 60 per cento della televisione mondiale è fatto dagli americani: rinunciano a rapinarti pur di aprirsi nuovi mercati».
Però bisogna vedere che razza di televisione viene fuori. La sua Canal Jimmy, che si rivolgeva ai gay, fu censurata per volgarità dal Giurì della pubblicità.
«Canal Jimmy ha rivoluzionato il linguaggio. È stata la prima Tv a capire che l’avvenire non era nel cinema, bensì nei serial di qualità, da Six feet under ai Sopranos. Avevamo una libertà incredibile. Un giorno spegnemmo il canale per una settimana dicendo ai telespettatori: “Fuori c’è bel tempo, uscite di casa”».
Lei era nel consiglio d’amministrazione di Mediaset. Come conobbe Silvio Berlusconi?
«Lo incontrai quando Canal Plus nel 1997 acquistò il 90 per cento di Tele+, che era stata fondata dal Cavaliere insieme con Vittorio Cecchi Gori, Leo Kirch e altri soci. La prima impressione fu di avere davanti un imprenditore che la Tv non si limitava a farla: la guardava. Non c’era angolo del palinsesto che gli fosse ignoto. È importante. Non tutti quelli con cui ho lavorato si mettevano davanti al video la sera. Solo che Tele+ non era abbastanza italiana».
In che senso?
«Siete o no il Paese degli stilisti e dell’eleganza? Perciò commissionai i bumper della pay tv al designer Giorgetto Giugiaro. Non voleva saperne: “Ma io non ho mai fatto un lavoro simile!”. Se sai disegnare una Maserati, lo rincuorai, vedrai che ti verrà bene anche il logo animato di Tele+».
Che pensa del Berlusconi statista?
«Un giorno l’amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, mi telefonò: “Andiamo a cena a Roma, vieni con tua moglie”. Andai. Non capivo perché usassimo un aereo del Cavaliere per volare nella capitale. Appena atterrati, Galliani mi disse: “Passiamo prima a salutare Berlusconi”. Ma è il presidente del Consiglio, obiettai io, mica possiamo capitargli in ufficio così, su due piedi. “Tranquillo, andiamo a casa sua”. Il premier mi ricevette in pullover a Palazzo Grazioli. Gli presentai Patricia, conversammo a lungo. L’indomani chiesi alla mia segretaria, che conosceva l’Italia meglio di me: ma perché non mi ha chiamato direttamente Berlusconi? Poteva dirmi: “Michel, devo parlarti, ti aspetto a Roma”. E lei mi rispose: “No, perché quella sarebbe stata una convocazione. Invece così lei ha fatto un’improvvisata all’amico, non al presidente del Consiglio”. Fu un gesto di sensibilità istituzionale che apprezzai molto. L’Italia ha accollato al Cavaliere i debiti accumulati dai governi precedenti. È stato ingeneroso farne il capro espiatorio della crisi economica mondiale. La Francia non sta meglio dell’Italia eppure Nicolas Sarkozy nessuno l’ha toccato. E poi Berlusconi s’è adoperato molto contro le mafie, però pochi lo ricordano. Tutti i giorni un pezzo da novanta finisce in galera. Non era mai accaduto prima».
E del Berlusconi privato che mi dice?
«Mi voleva bene. Allo stadio San Siro accadeva una scena straordinaria. Finiva la partita e tu dalla tribuna venivi sospinto, non si sa come né da chi, dentro l’ascensore. All’uscita ti mettevano su un’auto e finivi al ristorante L’Assassino, con Berlusconi seduto a capo tavola. Al brindisi si alzava per salutare i commensali a uno a uno, ti sussurrava qualcosa all’orecchio e tutti a chiedersi: “Che gli avrà detto?”. Una domenica avevo portato a San Siro lo scrittore Sandro Veronesi. Siamo molto amici, s’è ispirato a me per la figura di Jean-Claude, il francese simpatico di Caos calmo. Gli ho detto: seguimi, non fiatare. E così s’è ritrovato a cena - lui, di sinistra - con Berlusconi. Al termine era molto divertito: “È stata la serata più incredibile della mia vita, come trovarsi in un teatro antico”».
La televisione italiana le deve qualcosa?
«Be’, prima che arrivassi io, sul piccolo schermo non avevate mai visto un calciatore in primo piano. Ho rivoluzionato il modo di filmare le partite. E poi ho messo fine alla schifezza dei film in cinemascope con le inquadrature tagliate. Oggi non c’è pellicola che non vada in onda nel formato originale in cui è stata girata. Ho anche modificato il comune senso del pudore».
In che modo?
«Col porno criptato, a pagamento, solo per gli adulti. Però non avrei potuto farlo senza il tacito consenso della Chiesa».
Ma che cosa sta dicendo?
«La verità. Informai la Conferenza episcopale italiana che Tele+ stava per avviare la programmazione hard. Trovai ad ascoltarmi un paio di vescovi comprensivi, non mi chieda i nomi perché non li ricordo. Illustrai loro i vantaggi del male minore: meglio se la sera i mariti stavano a casa, magari a rifare con le mogli quello che vedevano in televisione, piuttosto che uscire per andare a prostitute, sfasciando le famiglie».
Non posso crederci.
«Vada a controllare: non troverà una sola presa di posizione ufficiale da parte della Cei contro i film a luce rossa in Tv. Sa chi fu l’unico che mi telefonò incazzato nero?».
No, chi? Rocco Buttiglione?
«Antonio Ricci. “È uno scandalo!”, urlava. Per forza, rovinavo la piazza alle veline scosciate di Striscia la notizia. Guardi, col porno a pagamento ho avuto problemi solo nei Paesi protestanti. Negli altri mai, a cominciare dal Belgio e dal Principato di Monaco, dove la religione cattolica era culto ufficiale dello Stato».
Perché Tele+ fu venduta a Rupert Murdoch, che la fuse con Stream facendo nascere Sky?
«Perché Canal Plus aveva perso milioni di euro negli investimenti dissennati sulla Rete».
Che lei detesta.
«Internet è un mondo frammentato. Non aiuta l’integrazione, né delle famiglie né delle nazioni. Si limita a sfruttare 2 miliardi di solitudini. Sei di sinistra? Consulti siti di sinistra. Sei di destra? Consulti siti di destra. Sei giovane? Consulti siti per giovani. Non c’è più gente che la sera guarda la stessa cosa e il giorno dopo ne discute in ufficio o al bar. Come il pranzo e la cena: ognuno mangia ciò che vuole all’ora che vuole, genitori e figli non stanno insieme neppure a tavola. La Tv univa, il Web divide».
Detesta anche Murdoch.
«Io di questo magnate australiano non mi sono mai fidato. Fin da subito dichiarai che era un monopolista. I fatti mi hanno dato ragione. Lui ha la sua major, che si chiama Fox e fa programmi di ottima qualità, niente da dire, ma non lascia spazio a nessun altro. Finché il responsabile internazionale di Canal Plus sono stato io, Murdoch non ha mai messo piede in Europa. Un giorno m’invitò a pranzo nella sua casa di Londra. Mi chiese di aiutarlo a entrare nel mercato tedesco. Ok, gli risposi io, a patto che tu ci lasci entrare nel mercato americano. Non arrivammo al dessert».
Che cosa apprezza negli italiani?
«Il modo in cui difendono le loro eccellenze. Sono stupito dalla qualità delle aziende familiari. Siete molto più attrezzati della Francia per superare la crisi. In Francia lo Stato è ricco e la gente povera, in Italia la gente è ricca e lo Stato povero. A Tele+ decisi di affiggere il mio stipendio in bacheca. I miei collaboratori restarono di stucco quando videro che versavo il 55 per cento di tasse al mio Paese».
E un difetto che non sopporta?
«La cultura del ricatto. “Ti do questo, ma tu devi fare quest’altro”. Forse viene dai Romani. Do ut des».
L’euro ce la farà a superare la bufera?
«Tutto questo casino non serve né a salvare la Grecia né a salvare l’Italia, bensì gli imbecilli delle banche che già ci avevano messo in crisi con i subprime. La Banca centrale europea non ha prestato il denaro agli imprenditori per rilanciare l’economia, ma per comprare bond dei Paesi più fragili, e ora tutte le banche si ritrovano imbottite di spazzatura».
Come se ne esce?
«Tornando all’economia reale. Che mi frega se la Borsa crolla? Oggi ho prodotto qualcosa, ho pagato i dipendenti, ho creato reddito. Qui il problema è il lavoro che tuo figlio e mio figlio non riescono a trovare, altro che i mercati! Siamo governati dai capi della Bce, della Federal Reserve, del Fondo monetario, tutta gente che non abbiamo mai eletto».
Qual è il suo ruolo in azienda?
«Lavoro nella vigna. A primavera tolgo i rami di troppo. Tocchi qua». (Mi porge l’indice della mano destra, deformato da una callosità vistosa). «Lo faccio solo la sera, quando tutti se ne sono andati, perché non voglio che mi vedano inginocchiato per terra. A volte sono così stanco che mi addormento appoggiato ai filari».
Che cos’ha il vino che la Tv non ha?
«Ma sono identici! L’Orto di Venezia non esisteva, l’ho dovuto trarre dall’acqua, come le reti e i programmi dall’etere. L’unica differenza è nei tempi. Un canale satellitare si mette in piedi in sei mesi. Per vedere la mia prima bottiglia ho dovuto aspettare sei anni. Io pensavo a un vino da consumare nell’arco di 12 mesi.

Invece è venuto così ricco di struttura e di mineralità che migliora se lo stappi dopo due anni. Segno che ha trovato il suo terroir. Un po’ mi sono depresso: vuol dire che la terra è più importante dell’uomo. Beviamo un’ombra, adesso?».
(574. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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