Per ogni giornalista l’incubo peggiore è il lead, l’attacco del pezzo. Indro Montanelli diceva: «Se conquisto il lettore nelle prime righe, riesco a portarmelo appresso sino alla fine». Lucio Lami, che all’ombra del gigante di Fucecchio ha lavorato per vent’anni qui al Giornale, mi spiega che inizierebbe questo articolo su sé stesso come se fosse un libro di fiabe per ragazzi: «E cammina, cammina...». Lami era inviato speciale di guerra e per una vita ha camminato in mezzo ai cadaveri. Adesso ha finalmente ritrovato la pace nel cenobio della Madonna del Faggio, una chiesetta costruita fra i boschi di Compiano (Parma), borgo appenninico della Val di Taro. L’oratorio fu edificato nel 1485, dopo che in quel luogo la Vergine era apparsa a una pastorella muta dalla nascita e le aveva restituito il dono della parola.
Lami cercava un posto dove ricomporre il corpo e lo spirito, stremati sui fronti della Cambogia, del Laos, della prima e della seconda guerra del Golfo, del Libano, dell’Afghanistan, del Ciad, dell’Eritrea, tra le guerriglie del Fronte Polisario, dell’Irlanda, dell’Etiopia, della Somalia, dell’Angola, del Mozambico, del Nicaragua, del Perù. Ha ottenuto in affitto dal parroco il complesso monumentale abbandonato e l’ha restaurato a sue spese. «Quando arrivo da Milano, la prima cosa che faccio è chiedere al prete di portarmi il Santissimo: lo metto nel tabernacolo e riapro al pubblico la chiesetta». Accade nella bella stagione, perché d’inverno sarebbe impossibile vivere qui. Ha abbellito il tempio con le opere d’arte donate dai suoi amici artisti: un Giovanni XXIII scolpito da Mario Donizetti, il pittore bergamasco che ha firmato ritratti per la copertina di Time; un San Pietro e una Deposizione di Claudio Sacchi, l’allievo prediletto di Pietro Annigoni; una Madonna di Bruno Grassi. Nella foresteria, adattata a studio, ha appena finito di scrivere Giorni di guerra, pubblicato da Mursia, che raccoglie i suoi reportage. E sulla collina di fronte, nel castello di Compiano, il prossimo 27 agosto consegnerà come ogni anno il premio letterario Pen club di cui è fondatore e presidente (acronimo di poets, essaysts, novelists, poeti, saggisti, romanzieri, perché nacque a Londra nel 1921), l’unico dove il vincitore viene scelto da 350 soci scrittori.
Lami, classe 1936, è nato per sbaglio a Varedo (Milano): il padre vi era giunto come funzionario della Montecatini. La sua famiglia è originaria di Santa Croce sull’Arno: «Un Meo Lami nel 1240 consegnò la Valdarno a Firenze». A 24 anni, con l’ultimo stipendio da sottotenente di cavalleria, abbandonò Vicenza, dove il papà era stato nel frattempo trasferito. Lasciò alle 4 di notte un biglietto per i genitori sul tavolo di cucina: «Vado a Milano a fare il giornalista».
Sceso dal treno all’alba, vide l’insegna luminosa della Notte, il quotidiano del pomeriggio fondato da Nino Nutrizio, che aveva sede in piazza Duca d’Aosta, di fianco alla stazione Centrale. «Pensai: toh, che combinazione, un giornale! Salii in redazione e chiesi al fattorino di parlare col direttore. “Ha un appuntamento?”. Certo. “Il suo cognome?”. Lami. “Attenda qui”. L’ometto tornò poco dopo: “Il direttore la aspetta”. Nutrizio, che manco sapeva chi fossi, non fece una piega: “In che cosa posso esservi utile?”. Dava del voi a tutti. E io: vorrei fare il giornalista o anche l’addetto delle pulizie, se necessario, basta che mi mettiate alla prova. Il direttore alzò la cornetta del telefono e compose l’interno del capocronista Camillo Brambilla: “C’è qui un altro pazzo. Vedete che cosa sa fare”».
Qualche tempo dopo Nutrizio annunciò a Lami: «Voi sarete il primo novizio ad avere una rubrica firmata», e tirò fuori da un cassetto il cliché bell’e pronto della testatina: Il ficcanaso al mercatino. «Fui mandato in giro per i rioni a intervistare le massaie che facevano la spesa. Ho imparato così a scarpinare. Primo titolo: “Perché aumenta la passagrassana”. È un tipo di pera». La rubrica piacque a Oreste Del Buono, vicedirettore di Quattrosoldi, il periodico gemello di Quattroruote inventato da Gianni Mazzocchi, che lo convocò e lo assunse.
Da lì in avanti ha lavorato per tutti i grandi editori: con Edilio Rusconi a Gente; con Angelo Rizzoli da direttore di Bella; con Arnoldo Mondadori da caporedattore di Epoca. Poi inviato del Giornale e direttore, in successione, dell’Indipendente, dell’Uomo Qualunque e di Commentari, dove chiamò a collaborare i filosofi Karl Popper e Jean-François Revel. Quest’ultimo, che fu direttore dell’Express, ha collocato Lami nel pantheon dei grandi inviati del XX secolo. «Sono in pensione dal 2002 e da allora ho fatto voto di non scrivere più sui giornali. Non li identifico con la professione che ho svolto per 42 anni. Troppe livree».
Perché ha fatto il giornalista?
«Potrà sembrare una banalità: per vocazione. Già alle elementari le maestre annotavano sui miei temi: “Non è farina del suo sacco”. In classe leggevo di nascosto i libri di Emilio Salgari. Ho cominciato a viaggiare da bambino, con la fantasia. Mia moglie aveva suddiviso il guardaroba per stagioni e per continenti. Tornavo a casa una volta al mese. Mi chiedeva: “Adesso dove vai?”. Mi preparava la valigia e ripartivo».
Che differenza c’è fra l’ultima guerra mondiale, che lei vide con gli occhi di bambino, e quelle che ha seguito per Il Giornale?
«L’informazione. Prima i giornalisti andavano e raccontavano. Adesso sono embedded, vengono intruppati e portati a vedere solo ciò che interessa a una della parti belligeranti. Durante la guerra Iran-Irak mi feci fregare anch’io. Gli iracheni mi portarono con Ettore Mo del Corriere della Sera in prima linea, dove si sparava. “State giù!”, ci urlavano. La faccenda puzzava parecchio. Perciò l’indomani noleggiai con Mo una jeep e tornai sul luogo: il fronte era 50 chilometri più avanti. Gli ufficiali di Saddam Hussein avevano organizzato un bel presepio solo per noi due».
Da non embedded come agiva?
«Sono entrato da clandestino in Vietnam e in Siria. Ho attraversato a piedi, senza documenti, l’Afghanistan occupato dai russi. Sono stato l’unico al mondo a rivelare che Fidel Castro aveva le basi militari in Cile durante la dittatura di Augusto Pinochet. Il quale Pinochet mi concesse dopo molte insistenze l’unica intervista rilasciata a un italiano, giustificando così la sua riluttanza: “Los periodistas son todos mentirosos como la señora Fallaci”».
Ha mai incrociato la Fallaci sui fronti di guerra?
«In Libano e in Cile. Apparteneva alla generazione ormai estinta degli inviati “che non fanno sveltine”, come mi diceva. A Beirut alloggiavamo al Bristol hotel, in zona araba, mentre il truppone dei colleghi stava al Cavalier. Nutrivo per lei un misto di ammirazione e di riprovazione».
Per quale motivo?
«Era stata la gran sacerdotessa della guerra nel Vietnam e non mostrava segni di ravvedimento. La sinistra ha sempre chiuso non uno ma entrambi gli occhi per i macellai della propria parte. Quante litigate ho fatto nelle fumerie cambogiane con Tiziano Terzani, persuaso che Pol Pot fosse un benefattore dell’umanità. Però Oriana era tanto brava, aveva una scrittura classica. La fraternità toscana mi portava a perdonarle certe piccole vanità. Quando il contingente italiano lasciò il Libano, all’alba andammo insieme ad aspettare i nostri soldati nel porto di Beirut. E lei, sapendo che sarebbero arrivati i fotografi, si agghindò con elmetto e tuta mimetica».
Perché si dichiarano le guerre?
«Quelle di ieri per motivi territoriali, espansionistici. Quelle di oggi per interesse: petrolio, gas, giacimenti. I tecnocrati della guerra, disposti a commettere sbagli coscientemente per aiutare la politica, studiano come farle e non s’interrogano mai sul dopo. Gli americani sono autentici specialisti in materia».
I soldati più valorosi che ha visto combattere?
«Valorosi? Mah, non mi pare più il tempo del dulce et decorum est pro patria mori di Orazio. Resta l’ardimento, e su quello gli israeliani non li frega nessuno».
Ha mai rischiato di morire in guerra?
«Almeno tre volte. In Cambogia arrivò un colpo di mortaio durante il funerale di alcuni bonzi uccisi in battaglia. Scappando, sentivo un piede caldo e uno freddo. Mi fermai, tolsi lo scarpone: avevo una scheggia infilata nel metatarso destro. A Beirut un cecchino mi sparò mentre andavo a intervistare un capo maronita: il proiettile strisciò sulla pancia aprendomi il derma come se fosse lardo, per fortuna senza che fuoriuscissero le budella. Tacqui col Giornale perché non volevo spaventare la mia famiglia. A sera il caporedattore Leopoldo Sofisti mi rintracciò al telefono: “Ma brutto stronzo! Sei ferito o no?”. L’aveva saputo da un lancio dell’agenzia Reuters».
Il terzo incontro ravvicinato con la morte?
«In Paraguay, la notte del golpe contro il presidente Alfredo Stroessner. L’ambasciatore italiano mi stava riportando in albergo dopo avermi ospitato a cena. L’auto fu crivellata di colpi da un carro armato. Una pallottola mi trapassò la pancia e uscì dalla schiena. Ero ridotto a uno scolapasta: buchi dappertutto. E io, cretino, mi preoccupavo solo di raccogliere fra le mani il sangue che mi colava dalla bocca per non imbrattare il vestito buono con cui l’indomani avrei dovuto presentarmi da Stroessner per un’intervista. Ho ancora una scheggia incistata nello zigomo e una nella coscia, a quattro dita dalle palle, sarà fortuna o no?».
Quanti morti ha visto?
«Eeeh...». (Tace). «È il motivo per cui vivo in convento. Ho cominciato a 11 anni. Undici partigiani fucilati dai tedeschi a Varano Marchesi, nel Parmense, dov’ero sfollato. Mio zio arciprete mi consegnò un pacchetto di fazzoletti bianchi: io coprivo i volti e lui impartiva l’assoluzione alle salme. Da allora ho un rapporto fraterno con la morte. Non mi fa paura. La considero un momento di transizione».
Ha mai pianto?
«No. Avevo una reazione diversa: m’irrigidivo come un ulivo».
Il posto più infame dov’è stato?
«La brusse angolana. Mi venne una crosta sulla pelle. Jonas Savimbi, il leader guerrigliero, diede ordine di bucare un bidone d’acqua perché potessi farmi la doccia. Mentre mi lavavo, uno dei suoi soldati mi urlò: “Don’t move!”, non muoverti. Una vipera del Gabon stava strisciando fra i miei piedi seguendo il rigagnolo».
Dove trovava la forza per resistere?
«Nell’indomabile volontà di arrivare a vedere quello che bisognava vedere. In Afghanistan ricordo tappe a piedi di 30 chilometri sul Karakorum con i mujaheddin».
Non c’erano i cellulari per trasmettere. Come faceva?
«All’hotel Shatt El Arab, durante il conflitto Iran-Irak, avevamo un solo telefono per 20 giornalisti. Ettore Mo si metteva dietro la fila a dare gomitate, io davanti. I colleghi ci chiamavano “la bande des italiens”».
Oggi i giornali non hanno più le risorse per permettersi un inviato in giro per il mondo.
«Anche lo Stato è povero. Poi vai a vedere i capitoli di spesa e scopri cose turche. Nei giornali è accaduto lo stesso da quando i direttori, che prima erano monarchi assoluti, hanno cominciato a prendere ordini da manager e pubblicitari».
È stato direttore anche lei.
«Sempre per poco tempo. Arrivai alla guida del settimanale Bella dopo il giallista Giorgio Scerbanenco e fui costretto a lasciarla perché Enzo Biagi, direttore editoriale, aveva promesso quel posto a una parente del presidente dell’Eni. I giornalisti comandavano e gli editori non mettevano becco. Tutti i giorni incontravo in ascensore Angelo Rizzoli. “Ma lu chi l’è?”, mi chiedeva il mitico cumenda. Sono Lami. “E còssa l’è ch’el fa?”. Sono il direttore di Bella. “Diretùr? Inscì gióvin?”. Eh sì, commendatore. “Vœur dì che l’è bravo”».
In un saggio lei sostiene che la comunicazione ha sostituito l’informazione. Sembrerebbero sinonimi.
«Non lo sono. La comunicazione praticata oggidì è l’informazione privata del rapporto morale tra chi la fa e chi la riceve. Una mattina a Santiago del Cile feci un giro con l’inviato della Rai. Più tardi ascoltai il suo servizio con la mia radio a 12 bande. Parlava di due morti e quattro feriti. A cena gli chiesi: ma dove accidenti li hai visti, che sei sempre stato con me? Mi rispose: “Ahò, la volemo dà ’na mano alla democrazia?”».
Vede la possibilità di uno scontro armato fra Occidente e Islam?
«Non ce ne sarà bisogno. Da tempo la prolificazione ha sostituito la scimitarra. I musulmani stanno combattendo una guerra demografica e religiosa, favorita dalla crisi della Chiesa cattolica. Il Corano è un ariete che penetra dove il Vangelo ha ceduto il passo alla sociologia».
Molta violenza urbana non dipenderà dal fatto che le nuove generazioni non hanno conosciuto quegli eventi tragici, ma in qualche modo regolatori, che erano le guerre?
«È
(556. Continua)
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