È fermo, vestito in modo dignitoso, ma qualcosa in lui ricorda la posizione di un felino che si appresta ad agguantare la preda. Improvvisamente vede uscire dal ristorante quattro persone eleganti, due uomini e due donne. Uno di loro estrae un sigaro, gli altri accendono una sigaretta, parlano e scherzano. Intorno diverse persone fumano, la classica scena che si ripete fuori dai locali dopo la legge Sirchia. Alì - chiamiamolo così - tutte le sere si presenta con il suo mazzolino di fiori. Nel locale non può entrare, quindi ha escogitato - insieme a quelli come lui - lappostamento morbido, a volte implorante, ma sempre tenace. Le reazioni dei fumatori non si fanno attendere: chi si sposta, chi bofonchia «ma quanto rompono questi», chi sorride compassionevole, chi è indifferente. Ormai Alì sa come gira il mondo. Si avvicina al quartetto, listinto gli dice che qui non verrà respinto. Sorriso da copione ma forse no, propone le sue rose, alcune appassite. Uomo col sigaro: «Da dove vieni?». Alì: «Bangladesh». «Da quanto sei qui»? «Due anni».
Luomo col sigaro compera due rose, due euro luna, cioè quattro euro, cioè ottomila lire; è troppo gli dice, ma poi paga e il resto è mancia. Una delle signore sintenerisce. Il ragazzino avrà sì e no diciottanni, letà di suo figlio, quello scansafatiche viziato. Gli chiede come mai si trova a Milano e altre amabilità. Un lampo di orgoglio nello sguardo, ma è solo un istante: gli italiani sono spesso gentili con lui e in fondo questo è lunico posto dove scambiare due parole. Dice che è qui da solo, che la sua famiglia è rimasta in Bangladesh, dove non ci sono prospettive. Ammette di non avere il permesso di soggiorno e di avere paura della polizia.
Le lacrime sarebbero pronte a raccontare tutta la disperazione e la paura che si porta dentro. Se solo qualcuno glielo permettesse.
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