«Un disastro». E che altro poteva dire Barack Obama, ieri, dopo aver trovato sulla scrivania presidenziale il rapporto sull’andamento depresso della ricchezza nazionale nel quarto trimestre 2008? Pil -3,8% si legge in quel documento, il peggior risultato dal 1982 (addirittura dal 1954, se lo si depura dalla variazione dei prezzi), quando alla Casa Bianca c’era Ronnie Reagan ma la reaganomics ancora non aveva piegato la recessione. La peggior crisi dal dopoguerra è la sfida che il successore di Bush jr è chiamato a vincere. Partendo con un fortissimo handicap.
L’anno scorso ha lasciato in eredità all’America una crescita complessiva misera (+1,3%), la teoria di banche semi-fallite, un sistema finanziario al collasso e un mercato del lavoro via via prosciugato. Tre-quattro milioni di nuovi posti, ha promesso Obama. Servono per riportare speranza in un Paese sfiduciato; servono per riavviare il motore grippato dei consumi (meno 3,5% tra ottobre e dicembre) nonostante l’inflazione più fredda. La contrazione del Pil «non è soltanto un concetto economico, è un disastro continuo per le famiglie di lavoratori americani - ha detto Obama -: si fanno meno acquisti, le imprese effettuano meno investimenti, i datori di lavoro assumono meno». Così, molti americani stanno vivendo «il sogno americano al contrario». Un incubo - altro che l’happy end alla Frank Capra - scandito dai licenziamenti. «Abbiamo perso 2,6 milioni di posti di lavoro lo scorso anno - ha ricordato il presidente -, e altri 2,8 milioni di persone si devono accontentare di un’occupazione part time».
Da qui l’invito ad accelerare l’approvazione del piano di stimolo, che «non è la fine, ma solo l’inizio» del rilancio. Ottenuto il via libera nei giorni scorsi dal Senato, il pacchetto da 820 miliardi di dollari circa affronterà la prossima settimana l’esame della Camera. Obama ha già fissato una dead line ravvicinata: firma entro il 16 febbraio. Occorre fare in fretta, va dicendo da tempo. E le cifre di ieri sul Pil non gli danno torto. Se l’America paga i suoi eccessi, gli antichi vizi possono invece essere la salvezza dell’Italia, in condizione di cogliere già quest’anno la ripresa grazie ai propri difetti strutturali: carenza di grandi aziende, sistema bancario tradizionalista e lavoro nero. «L’Italia sta attraversando la tempesta finanziaria mondiale senza subire colpi irreparabili. Il sistema tiene», ha spiegato ieri il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, nel corso della presentazione del Rapporto Italia 2009. Merito del tessuto di piccole e medie imprese, sei milioni in tutto. Sopperiscono all’assenza delle mega-corporation, muovendosi in ambito manifatturiero, più che in quello dei servizi.
Poi ci sono le banche, ancora legate al territorio, la cui solidità deriva dall’essersi mantenute lontane dalla finanza creativa. E a un Pil che supera i 1.500 miliardi, va aggiunta anche un’economia sommersa che vale in base alle stime Eurispes circa 540 miliardi. Insomma, un Pil carsico, di cui si deve per forza tener conto nell’analizzare l’apparente paradosso-Italia. Che ricorda un po’ quello del calabrone: è troppo pesante rispetto alle ali, eppure vola. L’Italia sfida le leggi dell’economia, eppure sta in piedi. Grazie anche all’attitudine al risparmio delle famiglie, la cui patrimonializzazione è elevata e basso l’indebitamento. Quello delle imprese, sottolinea il rapporto, «è ragionevolmente connesso alle esigenze della produzione». Insomma, scarsi eccessi finanziari, effetto-leva (quasi) sconosciuto.
Quanto al governo, ha fatto una scelta «ragionevole» concentrando le risorse sulle fasce più deboli e sul finanziamento della cassa integrazione. Ma i problemi non mancano.
La preoccupazione che toglie il sonno, soprattutto per chi vive al Sud, è il lavoro: manca, o è precario. E anche quando c’è il lavoro, la busta paga è magra: in media i salari sono più bassi di circa 4.800 euro all’anno rispetto alle retribuzioni europee.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.