L'Amore è metamorfosi (come ha capito Psiche)

La favola di Apuleio ritorna in molte versioni: malinconica, voluttuosa, tragica, bizzarra...

L'Amore è metamorfosi (come ha capito Psiche)

Psiche è una ragazza bellissima, al punto che Venere ne è gelosa. La dea decide che debba sposare un mostro ma, per destino, a innamorarsene è suo figlio, Amore, che la porta in un palazzo meraviglioso, dove Psiche vive come una regina. C'è un limite: Psiche non può vedere Amore, i due possono amarsi solo al buio e, allo scoccare dell'alba, lo sposo scompare. Ma Psiche, anima bella e curiosa, oltretutto istigata dalle sorelle invidiosette, non resiste alla tentazione di sbirciare il volto dell'amante: di notte, con una candela, lo scruta, lo ammira e, nel momento in cui capisce che è tutt'altro che un mostro, anzi, è bello come un dio, lo brucia, lo sveglia, e la maledizione ricade su di lei. Per ricongiungersi ad Amore deve superare prove terribili imposte da Venere, perfino un viaggio agli Inferi dove, ancora una volta, la sua curiosità le gioca un brutto scherzo e le fa infrangere un'altra promessa. Ma, alla fine, Giove e Venere si impietosiscono e consentono nuove nozze, degne dell'Olimpo. E da Psiche e Amore nasce Voluttà.

L'anima, la passione, il piacere. Questa, narrata per la prima volta da Apuleio nelle sue Metamorfosi, era «la più bella favola dell'antichità» secondo Voltaire. Appare nel secondo secolo dopo Cristo (forse anche prima, in alcuni frammenti) e non ci lascia più: «La favola ha avuto un numero infinito di riprese, in tutte le arti: da Raffaello a Canova, da Füssli a Klinger, dal Flauto magico di Mozart e Schikaneder - che di Apuleio riprendono senza dubbio i temi - fino a César Franck e a Debussy, ogni arte ha avuto il suo Amore e la sua Psiche» scrive Barbara Castiglioni nell'Introduzione al volume, da lei curato, Amore e Psiche (Marsilio, pagg. 262, euro 18), che ha per sottotitolo «L'enigma dell'amore», indagato attraverso una serie di testi che al centro pongono questo mito, da Apuleio a Marina Cvetaeva, passando per La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi e Pascoli.

Dall'originale di Apuleio alla poesia (Psiche) di Marina Cvetaeva, i protagonisti e la fiaba stessa passano attraverso una vera e propria... metamorfosi. Dal dualismo fra spirito e corpo, fra desiderio e possesso, all'accentuazione di singoli aspetti (le punizioni, la sensualità, la malinconia, la leggerezza, l'illusione...) si arriva a un ribaltamento: la scrittrice russa infatti «supera ogni dicotomia, ogni dualismo e trasforma Amore e Psiche in pura essenza: perché l'anima, che per l'uomo comune è il vertice della spiritualità, per l'uomo spirituale è quasi carne» scrive la curatrice. Che ricorda come la favola fosse arrivata in Russia nel 1769, non con la traduzione delle Metamorfosi di Apuleio (che è del 1780) bensì con quella di Les amours de Psiché et de Cupidon di La Fontaine, che furono «russificati» da Bogdanovic nella sua Dushen'ka, apprezzata da Puskin. Ma per Cvetaeva questa Psiche era «troppo pesante e troppo terrestre», mentre avrebbe dovuto essere «solo e unicamente l'anima»: «Come la sua Psiche, anche la Cvetaeva è spirito, anima, essenza, è anima senza corpo, è l'anima che può accecare, è la presenza nell'assenza, perché l'Assenza, come scriveva nel 1923 ad Aleksandr Bachrach, è il Paese dell'Anima».

Prima di giungere all'estremo di questa Assenza, la Poesia attraversa, rigira, percorre e riequilibra questa favola a seconda delle epoche e dei bisogni. Nel Seicento spagnolo, Juan de Mal-Lara crea La hermosa Psyche, una versione «pittoresca ed eccentrica» fra coccodrilli, ninfe, nani e corteggiamenti; La Fontaine stabilisce un canone moderno con la sua opera, in versi e prosa, fedele nella trama ma non nello spirito all'originale, che spoglia di «echi misterici, iniziatici e allegorici» mentre «delinea dei personaggi lievi ed evanescenti, provocando un ironico contrasto con la costante, soffusa malinconia del suo romanzo»; Molière, nella sua Psyché, toglie questa malinconia e punta tutto sulla voluttà, gli sfarzi, la commedia (la messa in scena era pensata per la Salle des Machines alle Tuileries).

C'è però chi prende Amore e Psiche con molta meno leggerezza. Nel suo Zibaldone, il 10 febbraio 1821 Giacomo Leopardi si rifà all'«allegoria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente» da Madame de Lambert e scrive: «La favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza». Tanto è vero che trova risonanza nella Genesi dove, aggiunge Leopardi, «l'origine immediata della infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al sapere». La sua non è la versione più cupa della favola: Heinrich Heine vi intravede l'influsso del mea culpa cristiano («Dopo diciotto secoli, diciotto!,/ di penitenza, lei è ancora lì» scrive in Psyche), mentre John Keats ritiene che Psiche non sia stata trattata come merita, da quella divinità che è, e si ripromette: «Sarò io il tuo coro,/ il dolce gemito nella tua notte./ (...) sarò il tuo sacerdote,/ innalzerò per te un tempio» (Ode a Psiche). La più infelice è però la Psiche di Pascoli, a cui il poeta da del tu: «piangi d'amore, o solitaria Psyche,/ nella tua casa», scrive alla dea, che geme «trepida, inerte», disperata.

Come nel momento cruciale in cui scopre il volto dell'amato, e lo perde: «E lo sapesti solo allora che sparve,/ l'Amore alato. E ne sospiri e l'ami». La Psyche di Pascoli immortala la felicità che svanisce nell'istante in cui la assapori. E che ti lascia, in bocca, l'amaro del destino.

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