Non esiste l'arte contemporanea. Esiste una idea dell'arte contemporanea che si interpreta come un'arma da usare contro chi non si riconosce in un perimetro delimitato dalle mode e dal mercato. La condizione umana di precarietà, di crisi, di rivolta, determina un malessere di cui si fanno interpreti alcuni artisti particolarmente sensibili. Quella condizione degrada in chi assume un atteggiamento che progressivamente trasforma il dramma in una finzione. All'inizio è la viva coscienza di una esperienza di sofferenza, come in Kafka o Rainer Maria Rilke, il quale scrisse in una lettera: «Le opere d'arte sono sempre il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'essersi spinti, in un'esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare».
Parallelamente Alberto Giacometti, scultore di una crisi che si riflette nella forma, risponde, con viva intelligenza: «L'oggetto dell'arte non è riprodurre la realtà, ma creare una realtà della stessa intensità». Niente di più vero. È in fondo una variazione della intuizione di Oscar Wilde: «Nessun grande artista vede mai le cose come sono veramente. Se lo facesse, smetterebbe di essere un artista». Ma era stato Benedetto Croce a ricondurre la questione a un apparente relativismo che si risolveva in una intuizione istintiva della idea stessa di arte come percezione di un bene condiviso attraverso una emozione rivelatrice: «Alla domanda: Che cos'è l'arte? si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l'arte è ciò che tutti sanno che cosa sia».
Per questo l'intuizione precede l'atto critico, che è impuro, condizionato, interessato, e spesso non adeguato a comprendere il mistero di un'opera d'arte, frutto di un tormento che è solo condivisibile emozionalmente, per identificazione: «Le opere d'arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica», afferma Rilke. È una dichiarazione di guerra. E vale per le anime naturalmente belle. Per gli altri basta il richiamo di Leo Longanesi, cinico e vero: «L'arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati».
Ma la definizione di arte vacilla quando arrivano le prime avanguardie, intenzionate a sconvolgere un ordine che aveva presupposti certi, ma fragili. Aprono le danze, malignamente, i Futuristi, in un Manifesto incendiario che inizialmente sembra un gioco, ma si rivelerà un terremoto: «Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia».
Lentamente la provocazione si farà norma, e l'arte sembrerà esistere solo nella condizione febbrile dell'avanguardia. Tragicamente sereno e imperturbabile si mostrerà così il più radicale di tutti, Marcel Duchamp, imponendo un oggetto d'uso, l'orinatoio, nello spazio destinato all'opera d'arte. È lucido, estremo, definitivo: «Io mi definisco anartista invece di artista, o meglio ancora, respiratore. La mia attività consiste, semplicemente, nel vivere».
Davanti a queste lucide provocazioni, non sarà difficile a un uomo d'ordine, intelligente e originale, ma indisponibile a farsi portare in giro, rispondere con un epitaffio, in difesa della intelligenza: «L'arte moderna si chiama così perché non ha nessuna probabilità di diventare antica». La formidabile battuta è dello statista Nikita Chrucëv, innovatore e presidente della Unione Sovietica. Su questa scia uno dei più intelligenti scrittori italiani potrà definire i prodotti effimeri degli artisti d'avanguardia con una battuta folgorante: «I capolavori oggi hanno i minuti contati». È una intuizione perfetta e micidiale di Ennio Flaiano.
Lo segue, superando il paradosso, in una implacabile fotografia, Brian Sewell: «Più frequentiamo le mostre d'arte moderna, più tutto sembra assomigliare a un'opera d'arte, compresi la sedia dell'addetto alla sorveglianza e l'estintore». Lo si può smentire? Non è la stessa sensazione che trasmette la visione del travolgente episodio del film Dove vai in vacanza? con Alberto Sordi, «Le vacanze intelligenti»? È il 1978, l'anno della 38ª Biennale di Venezia: «Dalla Natura all'Arte, dall'Arte alla Natura». Quell'edizione traeva spunto da una massima di Kandinskij: «Grande astrazione, grande realismo». La direzione del Padiglione Centrale era stata affidata ad Achille Bonito Oliva.
Esilarante la scena in cui i due protagonisti, Remo e Augusta, non riescono a comprendere il linguaggio e le forme dell'arte contemporanea e, quando lei si ferma a riposare su una sedia, viene scambiata per una installazione d'arte vivente - «sedia con corpo adagiato» - che
un visitatore è disposto a pagare una cifra ragguardevole. Nella loro esperienza si misura che la valutazione di Sewell è perfettamente compiuta. E la concezione dell'arte ha perduto i confini. Tutto è arte, niente è arte.
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