Controcultura

"L'arte della moda" è una lunga passerella che attraversa i secoli

Fra capi e capolavori la sintonia è perfetta. Un'assenza pesante: Tamara de Lempicka

"L'arte della moda" è una lunga passerella che attraversa i secoli

In una incredibile centrifuga di dipinti, sculture, costumi ed abiti d'epoca si dipana la mostra «L'arte della moda», nei vasti ambienti del museo San Domenico di Forlì. È l'ultima impresa di Gianfranco Brunelli, deus ex machina delle grandi esposizioni del San Domenico, che per 17 anni sono state curate da insigni studiosi e specialisti, da Antonio Paolucci a Fernando Mazzocca. Con l'arte della moda e il minor vincolo specialistico Brunelli può agire indisturbato, in presa diretta, senza obblighi o imperativi filologici, tanto da tradurre il titolo specifico nel sottotitolo più aperto: «L'età dei sogni e delle rivoluzioni. 1789-1968». La storiografia è meramente cronologica per necessità e competenze, ma, alla fine, il nesso tra l'arte e la moda resta un teorema non dimostrato, eppur carico di collegamenti, di connessioni. Il viaggio della moda è un labirinto dove vedi abiti, corpi e dipinti in una connessione continua fino all'identità, in casi come le citazioni di Lucio Fontana in Mila Schon o di Capogrossi in Renato Balestra, e nella diretta trasposizione di Paolo Ghiglia che ritrae precisamente la contessa Mara Braida Carnevale nell'abito con bolerino della sartoria Ventura.

Al centro della mostra si possono porre, in un suggerimento di percorso, per chi come me l'ha fatto tutto, il Ritratto del cavaliere dell'ordine Costantiniano di Fra' Galgario in un abito elegantissimo, forse di manifattura francese, in contrasto con il volto più vizioso e perverso che si possa immaginare: un dandy crudele e impietoso. Nel Novecento protagonista resta la marchesa Casati, con il mirabile ritratto di Giovanni Boldini, nel quale si assorbe e svapora tutta l'avanguardia futurista, in forza di una mondanità che è spettacolo come tutta la vita della Casati, e di cui impressionante è, al centro dell'aula di San Domenico, come il più sontuoso dei paramenti sacri, l'abito reinventato da Galliano per Christian Dior. Lo spirito della mostra ce lo spiega Fabiana Giacomotti che intreccia imprevedibilmente Paolo De Matteis con Irene Galitzine, dando sostanza storica alla caccia grossa di Brunelli. L'epitome della sua ricerca è la risoluta affermazione di Elsa Schiapparelli, amara e consapevole: «Disegnare abiti non è una professione, ma un'arte. Una delle più difficili e deludenti perché appena il vestito è nato, già appartiene al passato. Un vestito non rimane attaccato al muro come un quadro e nemmeno conduce la lunga esistenza intatta e preservata di un libro».

Può essere, ma il tentativo di Brunelli è proprio questo: dimostrare che gli abiti e il mondo della moda si proiettano ed esistono nei quadri. Il lungo percorso di circa 180 anni lo dimostra. La moda è l'arte del nostro tempo e l'arte si ispira alla moda. Per questo, fra tante lodevoli presenze, appare misteriosa l'assenza di una delle figure chiave di questa connessione: Tamara de Lempicka, che disse eloquentemente: «io non seguo la moda, la faccio». È quello il momento in cui dall'eleganza degli abiti, vistosamente rappresentata in tutto il Settecento e l'Ottocento, si passa alla produzione della moda, i cui primi segnali, paralleli alla marchesa Casati, che vive come un'opera d'arte, sono in Koloman Moser e in Gustav Klimt nell'ambito della scuola di arti applicate Wiener Werkstatte, con i tessuti documentati in mostra nei riflessi sui quadri di Joseph Maria Auchentaller, di Leo Putz, di Otto Friedrich. In Italia si muovono parallelamente le esperienze di Mariano Fortuny, con la sua forte ispirazione classica, e gli esponenti della Secessione romana, stimolati da Klimt, come Galileo Chini e Vittorio Zecchin. Stefano Bosi indica opportunamente la derivazione da queste esperienze nella stilista Maria Monaci Gallenga che espose alla Panama-Pacific Exibithion di San Francisco, nel 1915, le sue tuniche, stole, voilages. Sarà poi il futurismo con Balla, Depero, Thayath a stabilizzare il rapporto con la moda.

La parte più travolgente della mostra è quella Novecentesca, che è rappresentata da una serie di capolavori di Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci, Cagnaccio di San Pietro, Antonio Donghi e da paralleli esponenti della Nuova oggettività, come Christian Schad, Rudolf Schlichter, Kurt Eichler, rimbalzati sugli italiani Gregorio Sciltian e il sorprendente, inarrivabile, Mario Reviglione. Non mancano il triestino Oscar Hermann Lamb, Carlo Socrate, Piero Gaudenzi, e Alberto Savinio e Giorgio De Chirico. La presenza di artisti rari, come Reviglione e Gaudenzi, è certamente commendevole. Inspiegabile è l'assenza di Mario Cavaglieri, soprattutto con un'offerta così ampia. Negli anni Sessanta spiccano gli artisti della pop art, ed è assai lodevole, fra essi, la presenza, anche per ragione di soggetti, di Domenico Gnoli. In quegli anni moda e arte sono in concorrenza, non in conseguenza, e si affacciano personalità straordinarie come Salvatore Ferragamo, Emilio Schubert, Iole Veneziani, le sorelle Fontana, Roberto Cappucci, Balenciaga, Irene Galitzine, Ken Scott, Valentino, Gucci, Pierre Cardin, Giorgio Armani, Versace, Prada.

In tanta dovizia non mi spiego, ma non vorrei irritare Fabiana Giacometti, l'assenza di formidabili precursori come Roberta di Camerino ed Emilio Pucci. La loro presenza, alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, io l'ho misurata sul corpo di mia madre.

La mostra resta una onirica immersione da cui si esce travolti e sazi.

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