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Una leggerezza ad alto rischio

Già qualche mese fa, l'Opec aveva alzato bandiera bianca: «Non siamo più in grado di condizionare i prezzi petroliferi». Vero. Ieri come oggi. Con una differenza: allora, il Cartello ammetteva la propria impotenza a sovvertire i giochi della speculazione; adesso, assiste al crollo dei prezzi - malgrado il drastico giro di vite produttivo deciso a Orano -, presi a picconate da una crisi alimentata certo dalle scorribande nelle praterie della finanza creativa, ma anche da quel fenomeno di iper-surriscaldamento del greggio che pesava sul nostro portafoglio fino a qualche mese fa.

Eppure, anche se il pieno di carburante è meno caro, se le importazioni del petrolio e dei prodotti derivati alleggeriranno la nostra bolletta energetica e aiuteranno le imprese, c'è poco da stare allegri. La temperatura delle quotazioni del greggio scende al salire della febbre recessiva. Ma un petrolio sotto i 40 dollari introduce tutta una serie di variabili che, in prospettiva, non possono essere considerate positive.

La prima conseguenza è un taglio agli investimenti nelle energie alternative, non più un obiettivo così prioritario come quando il greggio puntava verso i 150 dollari. Sul lungo periodo, i riflessi sull'ambiente potrebbero farsi sentire. Lo stesso settore petrolifero ha minor interesse ad attivare il motore della ricerca: le possibilità di scoprire nuovi giacimenti giganti sono ormai quasi nulle, e con quotazioni così basse l'esplorazione rischia di rivelarsi un'attività senza ritorno economico.

Non a caso, sono in bilico i progetti di sviluppo in Canada, Golfo del Messico, Venezuela e Mare del Nord.

Le conseguenze? Una volta ripartito il ciclo economico, e dunque la domanda, un’offerta inadeguata di petrolio potrebbe far ripartire la corsa delle quotazioni. Attenti all'insostenibile leggerezza del greggio.

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