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Leggerezza e classe. Così Sophie Kinsella ha raccontato perché oggi tutti "We love shopping"

Morta a 55 anni per un tumore l'autrice inglese che ha creato la serie bestseller

Leggerezza e classe. Così Sophie Kinsella ha raccontato perché oggi tutti "We love shopping"
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È morta a 55 anni Sophie Kinsella, questa volta non si è salvata dal glioblastoma multiforme, tumore cerebrale tra i più aggressivi (e ve lo dico subito, per non edulcorare la pillola dei coccodrilli che iniziano con "si è spenta" o "se ne è andata", come se una persona fosse una candela o fosse andata in vacanza), non ha mai chiesto di essere salvata dalla critica. E faceva benissimo.

Per vent'anni è stata sistemata con cura nelle categorie più di basso livello, per casalinghe di Voghera: narrativa femminile, rosa, da spiaggia, da aeroporti, da letture "leggere", da parrucchiere, e dire che io, elitarissimo, i suoi romanzi me li sono letti tutti. Lei di quelle etichette se ne è sempre fregata (ha fatto bene), preservativi critici di snob che in Italia funzionano sempre come assoluzione preventiva per chi non ha voglia di misurarsi con la scrittura, e è stata molto più vicina a Balzac dei tanti tromboncini illeggibili che raccontano di impegni civili o, peggio, si credono Joyce.

Sophie Kinsella, al secolo Madeleine Wickham, laurea a Oxford in Politica, Economia e Filosofia, giornalista finanziaria prima di diventare un fenomeno editoriale, ha risposto con l'unica cosa che decide davvero: ha continuato a scrivere meglio di molti che venivano presi sul serio. Con I Love Shopping (e la serie che ne è seguita) e il personaggio di Becky Bloomwood non ha inventato la "ragazzina frivola", come si è sempre voluto raccontare con un certo snobismo. Ha descritto prima di tanti altri la psiche del consumatore occidentale in piena crisi identitaria e il debito come forma di esistenza e l'ansia sociale mascherata da euforia e la solitudine coperta di vetrine e lo shopping come anestesia, e senza essere anticonsumista, anzi. Il tutto passando dalla commedia, che è sempre stata la forma più difficile da maneggiare. Far piangere è facile, far sorridere no, e se lo fai controllando la macchina narrativa è ancora più raro.

Invece Sophie conosceva la tecnica, il senso della frase (onoro anche Pinketts già che ci sono), il tempo comico, il dialogo, la costruzione dei personaggi, la gestione delle attese, e chi la liquidava come "letteratura bassa" (i soliti tromboni) spesso lo faceva da posizioni molto più fragili sul piano dello stile, molto più kitsch. Io l'ho sempre elogiata, come Arbasino con Carolina Invernizio. D'altra parte si sa, se vendi troppo smetti automaticamente di essere scrittore e diventi caso editoriale, cioè oggetto di sospetto.

Il vero bersaglio polemico (consapevole o meno per Sophie), più ancora dell'élite, è il mid-cult. Quella terra di mezzo in cui ti fingi profondo infilando a forza temi sociali obbligatori, con traumi prefabbricati, e metafore sul corpo, e una spruzzata di attualità politica, di sinistra, di destra, così sembri impegnato senza disturbare nessuno. Sophie Kinsella non ha mai voluto abitarla quella zona. Lei era pop, dichiaratamente, senza chiedere scuse, e era proprio questo a renderla più onesta di molta narrativa che si traveste da alta solo perché incapace di altro.

Nel 2024 Sophie rende pubblica la diagnosi di glioblastoma, e lo fa senza scenografie, senza santificazione preventiva, senza trasformare la malattia in marketing del dolore, senza piagnistei, con spietata crudezza su se stessa. Anche lì resta coerente con la sua scrittura: niente posa né ricatti emotivi (al limite solo verso la biologia). Della morte di Sophie Kinsella si può dire solo questo, senza violini e senza cerimonie: è uscita di scena come ha vissuto nella scrittura, senza chiedere approvazioni culturali. La notizia passa veloce tra un aggiornamento e una timeline, con il solito corredo di frasi prefabbricate, "cordoglio", "mondo dell'editoria in lutto", "lascia un vuoto", come se i vuoti (spesso ipocriti) fossero unità di misura. In realtà quello che lascia non è un vuoto simbolico, lascia una cosa molto più scomoda: un catalogo di romanzi che continueranno a essere letti da milioni di persone mentre molti libri considerati più "importanti", magari incoronati da premi prestigiosi, spariranno in silenzio.

Sophia se n'è andata senza trasformarsi in monumento e tantomeno per rientrare all'ultimo minuto nei ranghi dell'alta letteratura, senza essere promossa postuma. È rimasta esattamente dove stava: nel pop, che è l'unico posto dove non ti proteggono, o funzioni oppure sparisci. Lei ha funzionato. A lungo.

E meglio di tanti che si erano aggrappati alla rispettabilità come a una polizza sulla mediocrità. Io, consumista indisciplinato, con un mio personale partito, Rifondazione Consumista, devo a Sophie la leggerezza ma anche la costruzione del romanzo classico e pop. I love shopping. I love Sophie. Amen.

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