Per lei l’America è sempre «on the road»

Il suo nuovo cd, «Day After Tomorrow», appena uscito, in America è entrato nella classifica degli album più venduti. Non nei primi posti, anzi, ma è un record per un’artista che già nei primi anni ’60 batteva i palcoscenici e i folk club cantando canzoni di protesta. È la cara, vecchia, tenace, commovente Joan Baez, sempre uguale e sempre diversa nel lottare a colpi di chitarra per i diritti civili e la pace nel mondo. Domani sera sarà al Teatro Smeraldo (ore 21) per suonare classici e brani nuovissimi, visto che il mondo le offre sempre nuovi motivi per cavalcare le crociate popolari. E il pubblico è con lei, acclamandola e cantando in coro i testi delle canzoni più celebri, che spaziano da We shall overcome (traditional poi interpretato e firmato da Pete Seeger) a Farewell Angelina di Bob Dylan, da C’era un ragazzo del dimenticato Mauro Lusini a Christmas in Washington del moderno ribelle Steve Earle per arrivare alle nuove composizioni.
I suoi capelli corti e incanutiti hanno sostituito la lunga chioma corvina della splendida ragazza dei tempi d’oro, ma le rughe non hanno rovinato quel volto e quegli occhi che hanno fatto sognare mezzo mondo e innamorare il giovane Dylan (che poi le rubò il palcoscenico e la scaricò senza troppi complimenti). Abituata alle battaglie sociali, Joan ha incassato questa sconfitta personale con dignità, buttandosi nel lavoro e nella canzone impegnata. Ed è ancora un mito, anche se non appare sulle copertine delle riviste patinate o sugli schermi dei grandi network.
D’accordo, quando incise il suo primo album, nella sala da ballo dell’Hotel Manhattan Towers di New York (alternando classici del folk americano come Silver dagger a canti popolari anomali per l’epoca come El preso numero nueve) esplose come la regina del folk stazionando ben 140 settimane in classifica. Però lei è sempre la stessa, dolce e combattiva, ironica e triste, lì pronta a dispensare emozioni cantando Joe hill come se fosse sospesa nel tempo tra il Greenwich Village, Woodstock e l’11 settembre. Nei suoi inni i fantasmi della ribellione anni Sessanta si fondono con il malessere di oggi (Joan sente particolarmente la guerra in Irak perché da bambina visse a Bagdad, mentre suo padre lavorava all’università locale) in un paio d’ore di suoni intensi e vibranti. Guai a domandarle se non è stanca di stare sulle barricate. «Nonostante ciò che sembra - risponde - oggi ci sono mille battaglie da affrontare, il mondo è cattivo come negli anni Sessanta.

Vent’anni fa sì che era faticoso per me, perché c’era molto disimpegno in giro». Lei invece è ancora portavoce della vera America, quella on the road dei suoi maestri Woody Guthrie e Pete Seeger (ultranovantenne re del banjo ancora in attività e di recente celebrato da Bruce Springsteen).

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