Cultura e Spettacoli

LEO CASTELLI Il re Mida dell’arte

Grande mercante ma non solo. Cosmopolita, raffinato, tombeur de femmes ma non solo In una biografia la vita e il folgorante successo del gallerista che creò l’arte contemporanea Usa

Un grande mercante. Questa la definizione che ogni libro di storia dell’arte darebbe di Leo Castelli. Ma, poiché le definizioni, nella loro brevità, finiscono sempre per tradire o per eludere l’essenza delle cose, va detto che Leo Castelli è stato qualcosa di più e di diverso di un grande gallerista. Un principe visionario o un cardinale del Rinascimento, secondo Alan Jones, il brillante cronista d’arte newyorkese che di questo singolare marchand de tableaux ha raccontato la vita inimitabile (Leo Castelli - L'italiano che inventò l'arte in America, Castelvecchi, pagg. 427, euro 26), a cento anni dalla nascita.
In comune con gli altri grandi mercanti d’arte contemporanea che si mossero sulla scena di New York fra gli anni 50 e gli anni 90 - dal rivale Sidney Janis all’intuitiva Betty Parsons fino all’esplosiva Mary Boone - Leo Castelli ebbe senza dubbio il fiuto infallibile che lo portava a riconoscere in giovani artisti oscuri le future stelle del firmamento internazionale ma ebbe, soprattutto, un grande amore per loro. Proprio per loro come persone. Il che era appunto qualcosa di più e di diverso. Scrive Alan Jones nelle ultime pagine del suo affascinante racconto della vita di Castelli (che è anche uno splendido affresco di quarant’anni di arte americana dall’Action Painting alla Pop Art): «Leo idolatrava i suoi artisti... l’entusiasmo di Leo aveva qualcosa di ingenuo, di adolescenziale quasi - e per di più davanti ad artisti che conosceva da più di trent’anni. La vista di uno di loro che entrava nella terrazza al “da Silvano”, poteva fargli esclamare con tono estasiato: “Guarda! C’è Bob Rauschenberg”». E occorre ricordare che la star che entrava in quel momento nel ristorante più fashionable dell’epoca, era diventata tale proprio perché Leo Castelli aveva scommesso su di lui. Come aveva fatto per Jasper Johns, del resto, per Roy Lichtenstein, per James Rosenquist, per Frank Stella. Jasper Johns disse un giorno che era felice di non aver lavorato per altri mercanti, mentre Leo definì il suo rapporto con Jasper «un lungo viaggio incantato».
Il viaggio di Leo Castelli partiva da lontano. Da una Trieste che, quando vi nacque il 4 settembre 1907, era ancora austriaca, ma soprattutto era un crocevia di etnie e culture: tedesca, italiana, greca, slava, ebraica. Lo stesso padre di Leo - Ernesto Krauss, banchiere di origine ungherese - era ebreo, come la moglie Bianca Castelli, di cui Leo prese in seguito il cognome. Il futuro di Leo Castelli dipenderà molto dal suo essere triestino, cioè appartenente a una società multiculturale, come dal suo essere ebreo. E paradossalmente, dovrà il suo folgorante successo proprio all’antisemitismo che dalla seconda metà degli anni Trenta prese a percorrere l’Europa. Altrimenti sarebbe rimasto a Parigi - all’epoca faro artistico mondiale - dove aveva aperto una galleria d’arte. Fu la minacciosa invasione tedesca a convincerlo a lasciare la Francia. Sbarcò a New York nel 1941 in un marzo gelido, con le strade coperte di neve.
Gli inizi non furono facili ma Leo - raffinato, cosmopolita, tombeur de femmes, ma soprattutto innamorato dell’arte e degli artisti - era l’uomo giusto per comprendere il dirompente fenomeno della nuova arte americana che di lì a poco avrebbe spostato il baricentro artistico da Parigi a New York. La «Leo Castelli Gallery» al numero 420 di West Broadway divenne ben presto leggendaria. E tale rimase per oltre quarant’anni.
La decadenza arrivò alla fine degli anni Ottanta, con la morte di Andy Warhol nel 1987 e la defezione di diversi artisti, dall’irriconoscente Rauschenberg ai minimalisti Richard Serra, Donald Judd, Dan Flavin, tutti migrati verso il potente centro della «Pace Gallery» di Arnie Glimcher. Castelli aveva ormai superato gli ottant’anni ma era rimasto lo stesso raffinato mitteleuropeo che suscitava invidie in campo maschile e appassionata ammirazione in quello femminile. Nel 1996, dopo due divorzi, sposò una critica d’arte italiana di oltre trent’anni più giovane. Morì nella sua casa di Manhattan il 21 agosto 1999, a novantadue anni.
Alan Jones si domanda quale sia la sua eredità «in quell’autentico museo vivente dell’arte contemporanea» quali sono secondo lo scrittore le gallerie di New York. La memoria della sua generosità con gli artisti, in primo luogo. E rimane l’arte, dal momento che, scrive ancora Jones, «il vero critico è il mercante. Rischiare un mese di spese su un giovane sconosciuto è una critica di alto livello. Ogni singola scelta del mercante è un atto critico, e l’insieme degli effetti di queste selezioni determina il corso dell’arte».
È negli spazi dei galleristi illuminati come Leo Castelli che l’arte viene a contatto per la prima volta con il pubblico. È lì che nasce l’artista.

Il sistema dei musei arriva dopo e ratifica.

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