Letteratura

Il caso Moro e l'avvio del declino dell'informazione in Italia

Ivo Mej nel suo libro, edito da Historica e Giubilei-Regnani, "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia" parla delle conseguenze sull'informazione del delitto più eccellente della storia dell'Italia repubblicana

Il caso Moro e l'avvio del declino dell'informazione in Italia

In Italia il caso Moro e i due mesi di infodemia a esso associati hanno cambiato radicalmente l’informazione. Non necessariamente in meglio. Lo fa presente il giornalista di La7 Ivo Mej nel suo libro, edito da Historica e Giubilei-Regnani, "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia". “Il primo libro” – ricorda Mej dialogando con IlGiornale.it – “in cui si analizza l’impatto del caso Moro visto attraverso la lente dei media e della loro evoluzione”.

Mej ricorda che il caso Moro lo ha accompagnato per tutta la vita: “Quando ero al liceo pensavo già di fare il giornalista. Quando rapirono Moro ottenni un’intervista a Leonardo Valente, capo cronaca del TG1. Volevo capire come funzionavano i meccanismi dei media. Questa lunga intervista che la registrai con su una cassetta per walkman e l’ho tenuta per anni. In seguit è stata la base della mia tesi al CSC nel 1982 e della prima edizione del libro, uscita nel 2008 e ora ampliata e rimaneggiata, per la cui pubblicazione ringrazio l'editore Francesco Giubilei".

Perché il 16 marzo 1978 fu il giorno in cui finì l’informazione? Perché, nota Mej, da allora essa “ha subito una mefamorfosi. Prima del rapimento Moro”, nota il giornalista, “qualsiasi tipo di informazione era sostanzialmente o un resoconto notarile del potere politico o, al massimo, aggiungeva una piccola riflessione una sezione di cronaca nera, mettendo da a parte il gossip e tutto il resto”. Con il rapimento, il sequestro e l’uccisione di Moro tutto “è confluito in un "unicuum” spettacolarizzato. E se dapprima “le Brigate Rosse sfruttarono tale spettacolarizzazione”, in seguito essa funse da divenne volano per l’azione politica di manipolazione dell’opinione pubblica avente alla base l’operato del discusso funzionario Usa Steve Pieczenik.

“Nell’infodemia del caso Moro”, nota Mej, “Pieczenik agì approfonditamente preparando l’opinione pubblica a un’eventuale fase di annuncio della morte di Moro” e per completare “il suo vero obiettivo: riportare quella che per lui era la stabilità in Italia”, Paese chiave del campo atlantico. Mej inserisce in questa operazione di spin influenza occulta “il falso comunicato sull’uccisione di Moro e sulla deposizione del suo cadavere nel Lago della Duchessa”, realizzato dal falsario Tony Chicchiarelli, “probabilmente ben conosciuto dai servizi segreti, manovrabile e capace di realizzare un falso d’autore” diventato la base per la prova generale per testare l’efficacia dell’opinione pubblica. Il falso comunicato uscì il 18 aprile 1978, stesso giorno in cui fu scoperto il covo brigatista di via Gradoli, a Roma e l’operato di Pieczenik fu quello di “amplificare l’effetto del comunicato per testare la tenuta di media, opinione pubblica e politica allo shock” che poi sarebbe avrebbe davvero colpito caduto sull’Italia il 9 maggio successivo.

Il comunicato del Lago della Duchessa, nota Mej, “è il caso di studio di un contesto in cui qualcosa di completamente incoerente ed illogico (il lago era ghiacciato da mesi) diventa plausibile” o percepibile come veritiero per l’amplificazione mediatica in un contesto di infodemia. Mutatis mutandis, nota Mej, è “ciò che accade anche oggi in diversi casi: ad esempio, quando i media dicono che Putin vuole conquistare l’intera Europa ma non riesce in realtà neanche a conquistare il Donbass”, piaccia o meno, si trasforma il pubblico nella vittima di un’operazione di spin influenza politico

In questo quadro “finisce l’innocenza dell’occhio di chi fruisce l’informazione, rimbambito dal rumore di fondo” mediatico. Curioso sottolineare che la televisione resta, come riportava il vignettista Bonvi in una striscia delle sue Sturmtruppen, l’arma più forte, ieri come oggi. Del resto Mej fa un esempio riferibile a quei tempi: “uno dei personaggi più famosi della Tv italiana, Bruno Vespa, diventa noto al grande pubblico con la grande visibilità della famosa diretta del TG1 da 86 minuti e 10 secondi condotta il 16 marzo 1978”, primo giorno di una serie di collegamenti in cui il pubblico venne portato a incontrare un contesto in cui si respirava “un mix di ansia per il futuro, di angoscia, di pervasività del timore per le conseguenze del caso Moro” ma che resero la sua immagine e il suo stile riconoscibile fino a oggi.

Il caso di Vespa è uno tra molti di quelli di figure diventate celebri sulla scia del caso Moro. Ma a livello complessivo, prescindendo dalla parabola dei singoli personaggi, a quarantacinque anni di distanza ci si accorge che “la notiza del rapimento Moro ha portato tre grandi novità”. Per Mej “ha cambiato i rapporti tra giornalisti e politica, tra giornalisti e notizia, tra giornalisti e opinione pubblica”. Nel primo caso, in prospettiva è partito dall’Italia un percorso che vede i giornalisti “sempre meno cani da guardia del sistema e sempre più cani al guinzaglio, comunicatori o amplificatori di linee decise dall’alto”. In secondo luogo, sulle notizie “i giornalisti sono diventati più opportunisti, selezionando cosa pubblicare e cosa no”. Infine, sull’opinione pubblica sono piombati gli effetti “dell’esordio dell’informazione in presa diretta”, spesso amplificatrice di ansie.

Numerosi, poi, negli anni a venire gli esempi di commistione tra politica, servizi segreti, giornalismo e potere economico. E dopo il 1978 è iniziato un vero declino strutturale dell’informazione italiana. Per Mej “il problema italiano è il fatto che editori indipendenti non esistono, tutti i gruppi sono in qualche misura dipendenti o sensibili al potere politico. In America c’è maggiore indipendenza del ruolo della stampa ma anche se decenni di neoliberismo friedmaniano hanno consentito la concentrazione di enorme ricchezze, e anche nei media ci sono sempre più tycoon” che usano i media per la propria agenda politica. Fino ad arrivare all’estremo di casi di testate che diventano megafoni espliciti per operazioni politiche o d’intelligence, “come avviene nel mondo anglosassone per il ruolo di MI6 e CIA nella guerra in Ucraina”, senza che nessuna testata si sforzi di validare le rivelazioni che vengono proposte al pubblico. Un modus operandi che in Italia ha avuto la sua palestra proprio nel Caso Moro. Diffondendosi poi nel resto dell’Occidente.

Fino ad arrivare al caos informativo odierno.

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