Così il Giappone crollò sotto una pioggia di fuoco

Richard Overy ricostruisce come gli Usa decisero una guerra senza quartiere ben prima di Hiroshima

Così il Giappone crollò sotto una pioggia di fuoco

L'esito finale, le due bombe atomiche che hanno annichilito le città di Hiroshima e Nagasaki, sono la parte più tragicamente nota della lunga campagna di bombardamento che contribuì in maniera sostanziale a spingere il Giappone imperiale verso la resa nella Seconda guerra mondiale.

Ma la strada che ha portato verso i due giganteschi funghi radioattivi, che hanno cambiato la storia umana per sempre, è stata molto lunga. Quanto? Torniamo al 1923, quando la guerra contro il Giappone era solo un'ipotesi da scuola di tattica. Il Joint Army and Navy Board statunitense stava già elaborando un piano d'azione per l'eventuale conflitto noto come Plan Orange. Vediamo cosa c'era scritto nella concettualizzazione generale della fase III: «Una campagna volta all'isolamento del Giappone attraverso il controllo di tutte le acque che lo circondano... oltre che con incursioni aeree sul territorio nipponico». Nell'aggiornamento del piano del 1928, dati i rapidi sviluppi tecnologici il piano venne rivisto aggiungendo «bombardamenti intensivi». Insomma la distruzione delle città giapponesi ha origini molto precedenti al conflitto e la bomba atomica è stata semplicemente lo scacco matto tecnologico a coronamento di un piano molto più vecchio e per certi versi anche più cruento della sua pur tragica realizzazione finale. Lo si capisce bene leggendo il saggio di Richard Overy Pioggia di distruzione (pagg. 184, euro 25) appena pubblicato da Einaudi.

L'aggressività e la violenza del militarismo nipponico non sono ovviamente in discussione. Però lo storico britannico, professore onorario dell'università di Exeter, mette bene in luce come la pianificazione dell'attacco al Giappone virò abbastanza rapidamente verso una ferrea determinazione di colpire non solo le strutture militari ma anche quelle civili. Inizialmente le forze aeree americane annasparono soprattutto nei problemi tecnici. Molti bombardieri non avevano la sufficiente autonomia per colpire efficacemente le isole maggiori giapponesi. L'incursione aerea su Tokyo del 18 aprile 1942, conosciuta anche come raid di Doolittle, ad esempio, fu poco più che un'operazione dimostrativa, ma anche in quel caso non ci si fece problemi a colpire anche obiettivi civili.

Perché i bombardamenti diventassero un'opzione più seria si dovette aspettare l'arrivo in linea dei bombardieri B-29, capaci di portare più carico bellico e di volare per distanze decisamente maggiori. Però avevano motori proclivi all'autocombustione e molti problemi tecnici che rendevano difficile il bombardamento di precisione. Erano più gli apparecchi che precipitavano per guai tecnici che quelli che venivano colpiti dalla contraerea giapponese.

Nel mentre però si faceva sempre più strada l'idea che bisognasse cambiare tipo di bersagli, colpire la popolazione per fiaccare la resistenza nipponica. Nel 1942 il National Defense Research Commitee sfornò il primo rapporto intitolato «Theory and Tactics of Incendiary Bombing», in cui si sosteneva che «le case dei lavoratori sono obiettivi primari» e che le città giapponesi «sono un bersaglio ideale per i raid incendiari». Nel maggio del 1943 la sezione di intelligence delle forze aeree statunitensi chiese un rapporto sull'infiammabilità delle città giapponesi. Per testare la capacità degli ordigni di distruggere le abitazioni giapponesi furono costruiti dei modelli di quartieri operai presso il Dugway Proving Ground nello Utah. Il modello di villaggio fu bombardato 27 volte per trovare la formula più devastante. Si decise che la bomba migliore era M-69, la cui carica al napalm era stata ideata da uno scienziato di Harvard, Louis Fieser.

Eppure quando il Generale Curtis LeMay organizzò il primo bombardamento incendiario a tappeto su Tokyo il 9 e 10 marzo del 1945, nessuno gli aveva dato una direttiva formale. Tutti, a partire dai grandi giornali, si limitarono agli scroscianti applausi dopo. Eppure qualcuno dei suoi ufficiali durante la pianificazione obiettò che il piano assomigliava «al tipo di bombardamento terroristico usato dalla Raf che le forze aeree statunitensi avevano cercato di evitare». LeMay non si scompose, chiosò che «non si può combattere una guerra senza vittime civili» e tirò dritto. Il punto è che i civili non erano solo vittime, erano proprio il bersaglio. E i civili giapponesi nelle loro case di legno e carta non erano minimamente pronti a difendersi dall'uragano di fuoco. La riserva d'acqua anti incendio era stimata nell'ordine dei 30 litri a persona. Nelle città statunitensi era compresa tra gli 800 e i 1100 litri. Sugli abitanti di Tokyo dotati solo di stuoie imbevute d'acqua piovvero 496mila bombe incendiarie. E in un giorno in cui il vento soffiava a 45km orari. Si creò un gigantesco braciere di dimensioni tali che le onde termiche sballottavano anche i B-29 che dovevano volarci sopra. Sotto, le persone in fuga prendevano letteralmente fuoco anche solo per essere state investite dall'aria calda e dalle scintille. In totale vennero distrutti 267mila edifici, un milione di persone rimase senza casa. I morti furono almeno 83mila ma non si è mai riusciti a fare un conto completo, di molti erano rimaste solo ceneri sottili. Quelli immediati furono superiori anche a quelli di Hiroshima (70mila) e Nagasaki (74mila), la strage più grande del XX secolo.

E fu solo l'inizio di una massiccia campagna di distruzione urbana che in cinque mesi uccise 269.187 persone. L'idea di colpire i civili era ormai sdoganata e la strada all'uso dell'atomica completamente spianata, anche se questo prequel è quasi ignorato dai libri di storia.

Al processo di Tokyo, tra gli avvocati che difendevano gli alti comandi giapponesi ci fu chi notò che dopo questi bombardamenti era difficile imputare ai nipponici qualcosa che non fosse imputabile anche agli alleati. Ma questa è un'altra storia, le guerre regalano sempre vincitori e vinti, quasi mai buoni e cattivi.

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