Il cuore nero dell’Islanda

 Il cuore nero dell’Islanda
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A noi italiani, l’Islanda sembra uno di quei Paesi perfetti, dove la sanità funziona, le tasse sono eque e pagate da tutti, gli autobus passano sempre in orario, i postini ti salutano, l’istruzione è eccellente, gli anziani sono tutelati, i bambini rispettati e perfino i giovani possono permettersi di avere dei figli. E le serrature alle porte sono un dettaglio decorativo. Vabbeh, il cibo, il clima... Ma persone losche, criminali di varia sorta, assassini o politici corrotti, in un paradiso della natura non possono esistere, e figuriamoci degli impuniti, in un luogo dove, immaginiamo sempre noi, da quaggiù, se butti una carta per strada vieni processato e condannato in cinque minuti. E invece fra il bianco della neve, il verde dei prati (un paio di mesi l’anno) e il rosso del fuoco del vulcani cova un sottofondo nero come la notte artica, quella degli infiniti mesi invernali.

A fare esplodere questa lava di passioni sopite è una coppia di autori, Ragnar Jónasson e Katrín Jakobsdóttir. Entrambi nati nel 1976, i due hanno seguito strade molto diverse, dato che il primo è avvocato e professore di diritto d’autore e la seconda è stata primo ministro del Paese dal 2017 al 2024, ma sono accomunati dalla passione per i gialli: Jónasson è autore della serie Misteri d’Islanda e della Trilogia di Hulda (pubblicate in 37 Paesi), cofondatore del festival

Iceland Noir e traduttore in islandese della regina del genere, Agatha Christie; Jakobsdóttir si è laureata in letteratura islandese con una tesi sul giallista Arnaldur Indriðason. Insomma i due, chiacchierando nel gennaio 2020, nel pieno della pandemia (che fra l’altro Jakobsdóttir ha gestito da premier in carica) hanno deciso di trasformare questo amore in un lavoro a quattro mani e hanno scritto Reykjavík (Marsilio, pagg. 266, euro 18), storia di un cold case risalente all’estate del 1956 che trova la sua soluzione vent’anni dopo, nell’ottobre 1986, nel pieno dei festeggiamenti del bicentenario della capitale, a cui entrambi gli autori hanno partecipato da bambini.

Al centro di Reykjavík c’è la scomparsa di Lára, classica brava ragazza senza scheletri nell’armadio, che decide di trascorrere le vacanze lavorando in una famiglia danarosa e rispettabile che ha una residenza estiva sull’isoletta di Viðey, un paradiso di solitudine, oceano e uccelli marini. Considerato che a frequentare l’atollo nordico sono solo la coppia, i volatili e il traghettatore, che fine avrà fatto Lára? Secondo i datori di lavoro, la ragazza si sarebbe licenziata all’improvviso e avrebbe fatto le valigie; ma a casa sua non ha mai fatto ritorno. Qualcuno le ha dato un passaggio e le ha fatto del male, o è stata lei stessa a scappare, o c’è dell’altro? Le indagini, condotte da un giovane poliziotto, si rivelano un fallimento; le poche piste vengono trascurate, anche a causa di pressioni dall’alto, e le tracce di Lára sembrano essersi perse in mezzo all’oceano.

Vent’anni dopo, a tornare in cerca di quella ragazza è un giovane giornalista.

Le sue indagini scatenano l’ira dei potenti di turno (che esistono anche in Islanda, pare) e catturano l’attenzione del pubblico al punto da fare passare in secondo piano perfino lo storico vertice fra Reagan e Gorbaciov ospitato nella capitale. Gli occhi di Lára sono di nuovo piantati in quelli degli islandesi e scoperchiano il senso di colpa di una società che, ovviamente, non è perfetta, bensì inquietante come tutte.

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