Controcultura

La "fame d'aria" ci porta verso un Padre perduto

La vicenda di una famiglia con un figlio autistico diventa la chiave per analizzare il senso del dolore

La "fame d'aria" ci porta verso un Padre perduto

Daniele Mencarelli si conferma lo scrittore più radicale in circolazione. Il romanzo Fame d'aria (Mondadori, pagg. 172, euro 19) è un pugno nello stomaco. Anche il lettore, come i personaggi, si trova ad ansimare, col fiato sempre più corto. La storia è semplice. Un uomo e suo figlio sono in viaggio. L'automobile ha un guasto. È necessaria la sosta in un paesino dimenticato, un borgo in via d'estinzione. Ci sono una locanda, un farmacista e un meccanico. Niente altro. Il figlio soffre di autismo, un disturbo neurologico che lo separa dalla realtà. Non è in grado di comunicare, se non con un lamento, sempre lo stesso. Dipende in tutto e per tutto dalle cure paterne. Durante il weekend nella locanda, scopriamo la dura realtà del figlio ma anche del padre. Scordatevi eventuali pagine strappalacrime. Non ce ne sono. Ci sono merda, piscio e vomito. Il figlio non è felice né infelice. Una condizione che il padre quasi invidia. L'uomo è segnato dalla mancanza di amore verso il figlio e soprattutto verso se stesso. È roso dal rancore. Maledice la società che abbandona le famiglie in difficoltà. Maledice la moglie, che sembra riuscire ad andare avanti. Maledice la vita stessa. Si lascia tentare due volte: da una ragazza del posto e dal desiderio irrazionale ma irresistibile di assistere alla morte del figlio. Con questo materiale forte ma scarno, Mencarelli ti inchioda alla pagina. Merito dello stile che avvicina il romanzo a un dramma teatrale. Poche descrizioni. Tanti dialoghi ben condotti. Alcune rasoiate d'autore dove non te le aspetti. Il finale è lontano dalle convenzioni. Si può raccontare, anzi si deve raccontare, senza togliere niente alla lettura del libro. Non si può certo dire che sia lieto. La famiglia si ricompone (bene o male, questo non lo sapremo mai) e il figlio, all'improvviso, è trasfigurato nel simbolo dell'ignoto, che tradisce, volutamente, una natura religiosa, quasi mistica. La sua presenza, si capisce nell'ultima pagina del romanzo, è imprescindibile, dà senso all'intera realtà, è sacra. Il figlio diventa il padre, meglio: il Padre. Il figlio... Fa pensare improvvisamente all'imperscrutabile monolite liscio e nero di 2001. Odissea nello spazio e insieme alla Pietà di Michelangelo. Il padre è profondamente umano nelle sue miserie e nelle sue ricchezze. Il piccolo mondo antico del borgo è appunto piccolo e antico: una comunità fuori dalla storia ma comunque una comunità. La comunità ti accoglie e non bisogna mai dimenticare che non ci si salva da soli. «Dio è un altro», recita l'esergo del romanzo. Letteralmente. Mencarelli continua a indagare territori scomodi: il Tso, l'autismo, le dipendenze. In fame d'aria tocca il punto più alto di una bibliografia senza cadute. La casa degli sguardi (Mondadori), esordio nel romanzo del 2018, è stato accolto con favore dalla critica e dai lettori. Tutto chiede salvezza (Mondadori) nel 2020 è stato finalista al premio Strega, e nel 2021 il suo Sempre tornare (Mondadori) ha vinto il Premio Flaiano. In realtà Mencarelli nasce come poeta alla fine degli anni Novanta, sulla rivista clanDestino, e ha anche accarezzato l'idea di scrivere per il teatro, prima di andare in scena con Agnello di Dio nel 2022, al Centro Teatrale Bresciano, regia di Piero Maccarinelli. La sua non è una carriera da scrittore, è una vocazione letteraria. Mencarelli non è un impiegato del romanzo, che timbra il cartellino editoriale e scrive qualcosa tanto per pubblicare. Mencarelli è un duro, un vero duro. Si diceva che Mencarelli è uno scrittore radicale. Certo. Affronta temi enormi, siamo lontani migliaia di chilometri dalle mode imperanti ovvero la ricostruzione del fatto di cronaca nera, le saghe mafiose e criminali, l'idealizzazione della propria giovinezza, per quanto in realtà abbia fatto schifo, l'impegno sociale un tanto al chilo: il povero immigrato, l'eterno fascismo italiano, l'avido Nord Est con un capannone al posto del cuore, il capitalismo rapace, la borghesia ipocrita, un luogo comune dopo l'altro, il romanzo italiano (medio) non risparmia nulla all'incauto lettore, la storia delle donne emancipate. Poi c'è la vena intimistica e allora vai con le memorie del primo bacino con la fidanzatina invitata in cameretta, la famiglia triste in un tinello con il tavolo di formica e un televisore, l'importanza, stranamente sfuggita a tutti, del proprio ombelico, la vita felice dentro al raccordo anulare, la periferia disumana di Milano. Infine lui, il divo, l'onnipresente, il detective depresso e fesso come un esistenzialista della domenica. Ecco, per fortuna Daniele Mencarelli ci parla invece del dolore, delle ombre nel quale si perde il nostro cuore, del bisogno di un orizzonte più vasto, dei rapporti concreti tra uomini, di incontri imprevisti e della presenza di qualcosa che trascende e giustifica tutto questo ansioso dimenarsi al quale talvolta si riduce la nostra vita. Non ci sono tanti scrittori che osano affrontare il sacro, andandolo a cercare nelle storie comuni o meno comuni ma comunque non stereotipate. Mencarelli è uno di questi.

Merce rara, dunque, ma senza alcun snobismo.

Commenti