
Nel XIX secolo, gli europei avvertirono come un’evidenza irresistibile che la storia dell’Europa stava giungendo al suo termine, o per lo meno a uno stato sociale, morale e politico che, retrospettivamente, rendeva intelligibile ciò che era accaduto a partire dalla fine dell’Impero romano. L’Europa si era sviluppata secondo due assi principali, due assi tra loro solidali e fattori di un medesimo progresso: da una parte il progresso dell’uguaglianza, dall’altra il progresso della forma nazione, o del principio delle nazionalità. Una pluralità, o addirittura un “concerto”, di nazioni di cittadini uguali, che si governano ciascuna in base al principio rappresentativo: questo sembrava dover essere lo stadio finale dell’insieme dell’umanità.
Ora, invece di pervenire all’equilibrio che sembrava doverla attendere, l’Europa entrò nel 1914 in un periodo di convulsioni, una “guerra civile europea”, o una “nuova guerra dei Trent’anni”, che colpì tanto l’interno delle nazioni come le loro relazioni esterne. La forma nazione come pure il regime rappresentativo entrarono in crisi allo stesso modo in cui erano cresciuti in forza, ovvero insieme e solidalmente.
La ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale diede vita a una sorta di stato di grazia, anch’esso di circa trent’anni, che alimentò grandi speranze. Mentre si rimettevano sui binari – insieme e inseparabilmente – e le nazioni e i loro governi rappresentativi, ci si avviò verso una nuova sintesi della vita europea che comportava allo stesso tempo la delegittimazione politica della nazione e quella del governo rappresentativo, quella che fu chiamata e ancora si chiama la “costruzione europea”.
Il governo rappresentativo è un artificio politico tanto ingegnoso e salutare quanto fragile. Potremmo dire così: i governanti fingono di obbedire ai governati, o, inversamente, i governati fingono di comandare ai governanti. In ogni caso, esso riposa su quella mediazione che sono le istituzioni rappresentative e che tanto i governanti come i governati devono avere la virtù di accettare, la virtù politica di una certa fiducia e di un certo rispetto da parte dei governati verso i governanti e, da parte dei governanti, un senso acuto della loro responsabilità nei riguardi dei governati. Un tale equilibrio è raro, difficile da raggiungere e da preservare. Gli uni e gli altri mal sopportano il giogo della mediazione. È, evidentemente, il caso dei governanti, ma anche dei governati che sognano una presenza immediata del popolo a sé stesso. Sul raffinato alambicco del governo rappresentativo incombe la possibilità, promessa o minaccia, di un popolo immediatamente politico, che si autogovernerebbe senza mediazione. *** Oggi, il popolo socialista è scomparso assieme agli operai e alle fabbriche. Esiste sempre un popolo “sociale”, in particolare i “lavoratori poveri”, ma non sono più legati a una comunità di lavoro produttrice di una socialità potente e portatrice di avvenire. Quanto al popolo nazionalista, non si trova in una situazione molto più felice, contrariamente a quanto si potrebbe dedurre dal dibattito politico corrente.
Il fenomeno più rilevante degli ultimi decenni è infatti la rapida e generale denazionalizzazione delle nostre nazioni, con la classe dirigente che si fa un punto d’onore di umiliare la lingua nazionale, e il popolo che da parte sua abbandona la sua religione storica e i costumi che a essa erano legati, con il paradossale risultato che il popolo nazionalista, o il populismo nazionale, ha forza ed esistenza tra di noi soltanto nell’ambito della rappresentanza politica, in quanto i partiti nazionalisti hanno forza ed esistenza solo nell’operazione rappresentativa per eccellenza, le elezioni. Il popolo nazionalista esiste solamente nel segreto e nell’anonimato della cabina elettorale. (Nell’ultimo periodo, almeno in Francia, l’unico movimento che abbia riunito un popolo variegato e numeroso senza mediazione politica è stato “Manif pour tous” – il movimento contro le nozze e adozioni omosessuali nato nel 2012 – che non aveva legami diretti con la questione nazionale e che il partito nazionalista trattò con disprezzo).
Così, mentre la mediazione rappresentativa si vede discreditata e ampiamente Il nuovo numero di «Vita e pensiero»
Fra scenari globali e spiritualità
Proponiamo in queste pagine l’articolo «L’Europa e l’avvenire della democrazia» di Pierre Manent, che è pubblicato sul numero 2/2025 di «Vita e Pensiero», il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in uscita giovedì 15 maggio. Manent è direttore presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Nel nuovo numero della rivista, anche una riflessione su «Cosa resta dell’Occidente oltre gli stereotipi » di Alessandro Vanoli; una discussione fra Pierpaolo Triani, Antonello Giannelli e Edoardo Camurri sul tema «E il Belpaese si riscopre analfabeta di Elena Beccalli su «Il potere dell’educazione e il futuro dell’università». E ancora, nella sezione «Polemiche culturali», tra le firme troviamo Giacomo Poretti («Ma la comicità non è morta: ecco perché»), Carlo Pagetti («Da Wells all’Ia, un canone per la fantascienza») e Andrea Dall’Asta («Il mito di Narciso e l’arte contemporanea »); mentre la scrittrice Silvia Avallone parla di «Il Male e la redenzione, fra realtà e letteratura».
impotente, il popolo sociale così come il popolo nazionale si trovano anch’essi senza forza. Che cos’è successo?
L’impresa europea implicava necessariamente il decadimento della mediazione rappresentativa – solo modo di trarre le conseguenze del crollo storico europeo. La Shoah aveva profondamente delegittimato l’ordine politico ereditato, era dunque necessario rompere l’arco storico europeo, e ritrovare forza
e legittimità nella costruzione di un ordine collettivo radicalmente nuovo e innocente. La catastrofe europea aveva evidenziato gli esorbitanti pericoli di un’azione comune in nome della nazione. L’indipendenza e la sovranità nazionali aprivano ai governanti un raggio di azione eccessivo.
Per prevenire tale rischio, si legarono le nostre nazioni in ogni sorta di legami economici e giuridici. L’Unione Europea è prima di tutto un sistema di impedimento delle azioni nazionali.
*** Così noi non viviamo in un “comune” europeo governato da istituzioni rappresentative capaci di azione, ma in un collettivo europeo ordinato secondo regole e direttive che garantiscono una buona governance. Essendo il criterio delle buone regole la maggiore universalità possibile, l’ordine europeo delle regole non ha altro orizzonte se non l’umanità intera. Deve dunque anch’esso fare i conti con un popolo immediatamente presente a sé, un popolo nuovo che non ha bisogno della mediazione rappresentativa, un popolo che si confonde con l’umanità stessa, essendo questa immediatamente presente in ognuno di noi attraverso il sentimento del simile.
Questo popolo non è rappresentabile politicamente e neppure raffigurabile, ma è attualizzabile in ogni istante da parte di ognuno di noi. Siamo ben felici di scoprire che l’attualizzazione politica della somiglianza umana è molto più facile della rappresentazione politica di una comunità di cittadini. Ciò che oggi ci governa, che ha potere sulle nostre azioni, non è il governo nazionale non più delle istituzioni europee: è l’umanità stessa, non l’umanità organizzata in corpi politici distinti, ma come processo di attualizzazione della somiglianza umana. Noi viviamo in effetti sotto il comandamento di attualizzare la somiglianza umana ogni volta che se ne presenti l’occasione e che questo sia possibile. È l’uomo in generale che costituisce l’orizzonte vincolante di tutte le istituzioni che danno la regola, siano esse nazionali, europee o internazionali. Egli ci governa attraverso la nostra volontà, perché noi vogliamo essere quest’uomo in generale, né francese né tedesco; né europeo né africano; né cristiano, né ebreo, né musulmano; né uomo né donna, eccetera. È questo fenomeno propriamente straordinario che vorrei cercare di precisare.
Secondo una valutazione seria, questi sviluppi discendono dal fatto che il principio dei diritti umani si è accaparrato in Occidente tutta la legittimità politica e morale: soltanto l’individuo da un lato, e l’umanità come somma indefinita degli individui dall’altro, sono legittimati per agire, al punto che tutte le associazioni intermediarie in cui viviamo, prese in una morsa tra l’individuo e l’umanità, sono diventate per così dire indifendibili.
Questa mi sembra una constatazione valida, ma che non fa che rendere ancor più sorprendente la nostra situazione. Come possiamo assegnare all’individuo un diritto incondizionatamente opponibile a qualsiasi istituzione – a quelle di cui è membro per uscirne, a quelle di cui non è membro per entrarvi – e privare ogni istituzione di un diritto opponibile all’individuo, il diritto condizionale ma effettivo di impedirgli di uscirne oppure di entrarvi al fine di preservare l’integrità dell’istituzione stessa e di mantenerne il senso?
È che noi consideriamo ogni istituzione, ogni “comune”, come una città chiusa, particolare e separata. Più essa possiede ambizioni o esigenze, più assume questo carattere di separazione. Più noi vi aderiamo con ardore, più ci dedichiamo a essa, e più ci separiamo dal resto degli esseri umani. E, nella misura in cui questa associazione comporta o produce un bene, o dei beni, noi ne priviamo coloro che non sono membri dell’associazione, commettiamo un’ingiustizia nei loro confronti, e in un certo senso facciamo loro guerra. Tu ami il matrimonio, e vuoi privarne le coppie dello stesso sesso? Ami la nazione, e ne escludi lo straniero che vuol farne parte?
L’unico modo per prevenire o riscattare questa ingiustizia, l’unico modo di mettere a tacere questa guerra è evidentemente quello di aprire l’istituzione o l’associazione a chiunque domandi di entrarvi, di aprirgliela il più largamente possibile, di non porgli alcuna condizione, insomma di farne un’istituzione o associazione incondizionatamente aperta. La sua legittimità non risiede più nel suo contenuto specifico, ma nella sua apertura all’individuo che reclama il diritto di entrarvi – non nell’ambito della finalità che le è propria, ma in quel momento perfetto, sacramentale, nel quale colui che era fuori si presenta per entrare ed è accolto senza condizioni. È allora soltanto che l’istituzione o l’associazione è amabile, che è giusta, che acquisisce il diritto di esistere. Prima, è al contrario odiabile, e si è in diritto di farle guerra poiché essa fa guerra all’umanità.
Noi siamo così i testimoni, anzi i promotori, di uno sconvolgimento dell’ordine umano, più precisamente della relazione tra l’interno dell’associazione umana e il suo esterno. Ancora non troppo tempo fa, partivamo naturalmente e necessariamente dall’interno – là dove ciò che è comune aveva il suo centro di gravità. Era questo il caso, in particolare, della democrazia rappresentativa, il regime per eccellenza dell’interiorità politica. Partivamo da dove i soci erano attivi e dove avevano la loro intenzione.
Oggi, in Occidente, noi partiamo dall’esterno. È solo a partire da lì che i nostri accordi collettivi possono ricevere la giustizia che è loro necessaria. L’unico modo di attualizzare questa giustizia è quello di cancellarci, non solo autorizzando incondizionatamente chiunque sia esterno all’associazione a entrarvi, ma anche reprimendo ogni maniera di essere o di pensare
»; l’editoriale
che comportasse o suggerisse una critica, o una riserva, sul modo di vivere di chi voglia esservi ammesso.
Siamo tentati di rendere questo stato di fatto meno strano guardandolo attraverso l’analogia del mercato libero, il quale trae anch’esso la sua giustizia dalla priorità data all’esterno e ai “nuovi entranti”. Secondo Montesquieu, il territorio del commercio è «tutto l’universo». Ma, precisamente, il nostro “universo” non è quello del commercio, anche se questo può farci cadere in inganno. Il libero scambio lascia entrare nel mercato nazionale il concorrente straniero, ma al fine di spingere all’azione il produttore nazionale. Quest’ultimo si perfezionerà sotto il pungolo del concorrente esterno. La sua agency è rispettata e incoraggiata. Nulla di simile nel dispositivo che stiamo cercando di chiarire.
A cosa è dovuta la differenza? Come membri dell’associazione o dell’istituzione, non possiamo più vederci come esseri che agiscono, poiché questo ci obbligherebbe a tenere in conto la sua finalità e a far valere il nostro contributo a essa, quindi a distinguerci, se non separarci, dal resto degli esseri umani. È sospendendo ogni movimento verso l’azione, ogni intenzione di azione, che oggi noi guardiamo il mondo e vogliamo rendergli giustizia. È questa la nostra “apertura”, la nostra ultima, la nostra unica virtù, che non è una virtù, nemmeno un vizio, perché non è una disposizione pratica. Che cosa facciamo, allora, se non agiamo? Ci asteniamo dall’impedire il movimento.
Attingere la propria regola nelle occasioni che vengono dall’esterno significa cancellare la differenza tra l’interno e l’esterno. Nell’ordine politico su cui ragionava Raymond Aron, l’interno, governato dalla legge politica, si distingueva nettamente dall’esterno, dove gli attori statuali, posti in una sorta di stato di natura, motivati dal timore, dall’interesse e dalla gloria, esercitavano la loro indipendenza a loro rischio e pericolo. Noi vogliamo ormai vivere in un mondo senza più differenza tra l’interno e l’esterno, ma dappertutto, uno spazio omogeneo attraversato da individui che sono altrettante quantità di movimento, e niente più, una volta che c’è in ballo la giustizia. I gruppi non sono comunità dotate di stabilità e di personalità, ma aggregati casuali e mobili di conatus il cui movimento incessante è più forte e più giusto della configurazione – la forma collettiva – che possono assumere di momento in momento. Il nuovo mondo conosce un unico comandamento, ma imperioso e persino implacabile: rimuovere tutti gli ostacoli al movimento dei conatus.
Ciò vale non solo per i loro movimenti esterni ma anche per i loro cambiamenti interiori. Nessun ostacolo dev’essere frapposto a nessuna trasformazione del conatus, quando questo la reclami. Nessun ostacolo, e, prima ancora, nessuna obiezione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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