All'entrata, con un coup de théâtre che sarebbe piaciuto a Gian Antonio Cibotto, un uomo che del teatro e della letteratura, e del giornalismo, e della messa in scena - fece la sua vita, le prime cose che il visitatore incontra sono i suoi principali strumenti di lavoro. Due pezzi storici. Il primo è la sua Mini Minor bianca (salvata da uno sfasciacarrozze di Lendinara!) con cui negli anni '70 e '80 e oltre, macinando migliaia di chilometri, batté in lungo e in largo il Polesine, la provincia di Rovigo e il Veneto, nei suoi viaggi creativi e geografici alla ricerca di una chiesetta da riscoprire, un paesino da raccontare, un paesaggio dal salvare, per lui e per noi. «Quando la sera piega alla malinconia/ salgo sulla mia vecchia Mini/ che ha scavalcato il muro dei duecentomila/ e mi dirigo alla volta della dolce città/ dove si rifugiava talora/ il gran poeta triestino Umberto Saba». La seconda è la sua vecchia macchina per scrivere, una «Lettera 22», quella dei maestri, sulla quale batté migliaia di articoli, critiche, reportage, elzeviri, raccontando, a noi e a se stesso, storie di uomini, di paesi, del suo Delta - bassa marea e alto afflato poetico - di scrittori e di libri.
Decine di libri, prime edizioni, volumi con dediche, manoscritti, pagine di giornali, locandine di film e spettacoli teatrali, fotografie, lettere, filmati dell'epoca... È tutto qua, a ricordare Toni Cibotto. E sembra di sentire il profumo del suo mezzo sigaro che teneva sempre fra le labbra, e il vento che spazza il suo Polesine, e i richiami della cagnolina Fosca, inseparabile; e poi la fumana del Po che si alza dalle pagine dei suoi racconti, le voci dei suoi personaggi: il vecchio Zuan, il contadino labourieux Giuseppe Bruno, i pescatori, le piccole donne del grande fiume; e poi le voci dei suoi amici, con cui lavorava, chiacchierava, si scriveva, intervistava, frequentava, litigava: Memo Benassi, Mario Soldati, Luchino Visconti, Vittorio Cini, Giorgio Bassani, Cesco Baseggio, Lino Toffolo, e Moravia, Parise, Delfini, e Giovanni del Drago, un principe...
Lui, Principe del Polesine, quando gli chiesero un ritratto autobiografico, nell'essenzialità della sua scrittura, se la cavò così: «Il tempo odierno, brutale e volgare, gli è nemico. Lo si consideri estinto». Ma per raccontarla davvero, tutta la sua vita, nel centenario della nascita, serve una mostra. Questa. Che apre oggi a Palazzo Roncale, a Rovigo, fino al 28 gennaio 2026: Gian Antonio Cibotto (1925-2017). Il gusto del racconto.
Curata da Francesco Jori, ma nata da un'idea di Sergio Campagnolo, punta a dare un'immagine complessiva, e complessa, di Toni Cibotto - ultimo cantore di un suo mondo antico fatto di tèra e aqua, aqua e tèra ma anche uomo di cultura italianissimo e a tutto tondo per sottrarlo a una distorsione critica che lo vuole come un elemento di punta, lui magnifico polesano, della letteratura veneta, e che invece possiede una solida e purtroppo sottovalutata dimensione nazionale. Dopo le formidabili cronache in forma di diario dell'alluvione del Polesine del 1951 quando il reportage diventa letteratura - poi diventate un libro elogiato da Eugenio Montale sul Corriere della sera, Cibotto si trasferì nei primi anni '50 a Roma, dove trascorse vent'anni tra La Fiera letteraria di Vincenzo Cardarelli e Diego Fabbri in cui lavorò come caporedattore, la Rizzoli dove fu capoufficio stampa, il giornalismo e la critica letteraria e teatrale (per il Resto del Carlino, il Giornale d'Italia, Il Gazzettino), la pubblicazione del romanzo La coda del parroco (1958), che provocò furibonde polemiche nel cattolicissimo Veneto, e del suo capolavoro hemingwayano Scano Boa (1961), che fu anche un film diretto dal dimenticato Renato Dall'Ara i cui effetti speciali, con la costruzione di tre esemplari elettromeccanici di storione incredibilmente realistici, furono curati da un giovane di talento, destinato a diventare una leggenda del cinema: Carlo Rambaldi... E poi il ritorno in Veneto agli inizi degli anni '70, richiamato dal direttore del Gazzettino, Lauro Bergamo, cui seguì la direzione del Teatro stabile Carlo Goldoni, l'appoggio al Premio Campiello, che senza di lui non sarebbe decollato, la riscoperta dell'opera del Ruzzante, la difesa appassionata delle compagnie teatrali locali, la costituzione di una biblioteca personale di migliaia di libri donata alla sua morte all'Accademia dei Concordi di Rovigo...
Anti-libresco, schietto, intemperante, cappello storto e idee drittissime, temperamento felino e generosissimo («disponibile e amatissimo, era un uomo che non sapeva dire di no a chiunque gli chiedesse qualcosa, anche se di trattava di scrivere la storia di una locale squadra di calcio», ricorda Sergio Campagnolo), lunatico e stravagante, contraddittorio e umorale, amante del vino «e delle strambe fantasie», Cibotto che pensava in veneto e scriveva in un bellissimo italiano - era a suo modo un conservatore, ma non antimoderno: era mondano, viveva la sua attualità, ma fu tra i primissimi a denunciare il decadimento di un Veneto che era passato di colpo dalla miseria alla riccanza e che ne pagava le spese nel degrado del paesaggio e delle relazione. E quanto a lui, la cosa che più amava era passeggiare solo nel Delta... quel «delta che non esiste». «Questa mobilità, questo aspetto liminare tra reale e immaginario, vita e morte, gli conferiscono una strana fascinazione».
Uomo segnato dalla solitudine - il padre, cattolico di ferro, gestì rigidamente la sua educazione, mandandolo in scuole private, unico maschio in
classi di sole femmine , se la portò dietro tutta la vita, fino agli ultimi anni quando, colpito da una malattia e una profonda depressione, si barricò in casa, isolandosi da tutto e tutti, scomparendo lentamente. Fino a oggi.