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Il giornalismo e la tv prima e dopo il rapimento di Aldo Moro

Il saggio "Rapimento Moro: il giorno in cui finì l’informazione in Italia", raccoglie l’immediata reazione delle principali testate italiane, analizzandola con lo sguardo di chi ha ora la consapevolezza che la democraiza è un organismo di cui i mezzi di comunicazione di massa rappresentano i vasi sanguigni

Il giornalismo e la tv prima e dopo il rapimento di Aldo Moro

In occasione del 45° anniversario del rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978, pubblichiamo un estratto del libro "Rapimento Moro - Il giorno in cui finì l'informazione in Italia" del giornalista e conduttore televisivo Ivo Mej, su gentile concessione dell'autore e delle case editrici historica e Giubilei Regnani. Si tratta del primo saggio che ricostruisce la vicenda partendo da un'attenta analisi della documentazione stampa e della copertura televisiva di quei giorni.

Due sono le fasi che normalmente contraddistinguono un evento trattato dai media di informazione in senso stretto:

1. Tempestività nel fagocitare l’evento.
2. Riespulsione dello stesso dopo averlo fatto passare per una fase di prima razionalizzazione.

Nel caso di tutte le edizioni straordinarie trattate, sia televisive che di stampa, questa seconda fase fu davvero minima, soprattutto da parte dell’organo con l’ascolto più vasto, cioè il TG1. Tale atteggiamento ha rivelato di avere valenze ambigue in relazione con i feedback indotti negli spettatori.

Tale fenomeno è stato minore nei quotidiani a cau- sa dell’ovvia diversità strutturale del mezzo e perché il tempo di riflessione è stato in questo caso imposto dalla composizione del giornale e dalla fase di stampa. Tuttavia, bisogna rilevare che il TG2 risentì in misura molto minore dell’improvvisazione che caratterizzò allora il TG1, imponendosi a priori uno spazio di riflessione che indusse i suoi dirigenti a “staccare la spina” per circa quindici-venti minuti dopo lo scarno annuncio della prima notizia.

È altresì rilevabile lo scarso ascolto del telegiornale del secondo canale (circa 100.000 utenti), che denota una preoccupante preferenza del pubblico – già allora – per la “drammatizzazione” della notizia (il TG1 vantava ascolti molto superiori al TG2 nell’ordine di 1 a 10, ma quel 16 marzo il rapporto fu stravolto arrivando a un rapporto di 1 a oltre 400!).

Nei giorni seguenti il rapimento si parlò molto della proposta del più autorevole studioso di mass media vivente, Marshall McLuhan.

Questi, come qualcuno ricorderà, propose un completo black-out informativo su tutto ciò che riguardava le Brigate Rosse. Oggi, come allora, la proposta McLuhan può sembrare adeguata a rigore di logica ma comunque inaccettabile da un punto di vista professionale da parte dei giornalisti e anche etico da parte del cittadino, che ha diritto di sapere cosa accade attorno a lui.

A proposito dell’“opzione McLuhan” e dell’effettvo comportamento dei giornalisti interessati all’epoca dei fatti, ecco un brano dell’intervista realizzata nel 1978 a Leonardo Valente, capo del servizio Cronaca del TG1 durante il rapimento Moro.

«La nostra professionalità era l’unica garanzia reale che c’era per offrire all’utente obiettività e completezza di informazione. La vera professionalità sta nell’onestà del giornalista cioè nel fatto di non fare mai agio rispetto agli elementi di giudizio ad una convinzione personale se non a livello di mediazione culturale che mi pare sia legittima, anzi, indispensabile».

D’altro canto, il dibattito, continuato a lungo sui giornali, per quanto riguardava la Rai ebbe termine subito in virtù di una delibera del Consiglio di Amministrazione che riaffermò essere «compito dei giornalisti quello di garantire l’informazione più ampia, obiettiva e responsabile possibile».

Nel confronto del TG1 con i quotidiani bisogna tenere conto che la valutazione della valorizzazione della notizia avvenne sul fattore tempo nel primo caso, sul fattore spazio nel secondo.

Inoltre, funzione fondamentale della tv è quella di riferirsi al complesso audio visuale di un ipotetico utente.

È necessario anche rilevare il limitato “senso dell’im- magine” o “senso iconico” della informazione televisi- va italiana, cosicché il TG serve solitamente non a for- nire una completa comunicazione “televisiva” ai suoi utenti, ma a offrire loro dosi più o meno massicce di “parlato radiofonico” e di “immagini mute”. Al con- trario, i servizi filmati presenti in un TG dovrebbero essere pensati e realizzati per assumere un significa- to completo e univoco e per trasmettere un messaggio ben preciso composto inscindibilmente di parola e im- magine. Tanto più in occasione di eventi straordinari e di emergenza nazionale come il caso Moro. Eventi così particolari e unici dovrebbero essere pensati e rea- lizzati per assumere un significato completo e univoco e trasmettere un preciso messaggio composto inscindi- bilmente di parola e immagine.

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