Tra i grandi romanzi cinesi del Settecento, Storie indiscrete dei letterati (Rulin waishi) occupa un posto singolare e scomodo. Non racconta gesta eroiche, non costruisce un'epopea, non consola. Wu Jingzi (1701-1754) prende di mira un solo bersaglio il ceto dei letterati e lo colpisce senza tregua, con la precisione di chi conosce dall'interno ciò che sta distruggendo.
Siamo nella Cina dei Qing, in un mondo regolato dal prestigio degli esami imperiali, dalla venerazione dei classici e da una rigida gerarchia morale. Il letterato dovrebbe essere il custode dell'ordine, il tramite tra sapere e potere. Wu Jingzi mostra invece il rovescio della medaglia: ignoranza mascherata da erudizione, ambizione travestita da virtù, servilismo elevato a sistema etico.
Il romanzo non ha un protagonista centrale. È una scelta cruciale. Storie indiscrete dei letterati procede per quadri, per episodi che si accostano come vignette satiriche. I personaggi appaiono, si agitano, si coprono di ridicolo e scompaiono. Nessuno cresce, nessuno si salva davvero. La continuità non è narrativa ma morale: ciò che ritorna è sempre lo stesso meccanismo di autoinganno. Alla fine, tassello dopo tassello, esce un mosaico davanti al quale non si capisce se ridere o piangere.
Il libro ora è pubblicato in versione integrale da Luni editrice (traduzione e cura di Vincenzo Cannata, pagg. 530, euro 36). Non dovete leggerlo tutto d'un fiato. Dovete lasciarlo sul comodino e leggere un capitoletto al giorno.
Non ve ne pentirete.
Il fulcro polemico è il sistema degli esami. Wu Jingzi lo descrive come una gigantesca macchina di deformazione umana. I candidati studiano per anni formule morte, citazioni svuotate di senso, non per comprendere il mondo ma per superare una prova. La cultura diventa ginnastica mnemonica, il sapere una moneta di scambio. Il risultato è una classe dirigente che parla in massime e agisce per interesse.
Il tono non è mai apertamente tragico. Wu Jingzi preferisce l'ironia, spesso una comicità fredda, che lascia il lettore senza appigli morali. I letterati piangono miseria mentre inseguono cariche; predicano rettitudine mentre tramano alle spalle; celebrano l'antico mentre vivono di compromessi. La satira non è rumorosa, ma insistente, come una goccia che scava.
Particolarmente efficace è il modo in cui il romanzo smonta il confucianesimo praticato, non quello teorico. I classici vengono citati in continuazione, ma come alibi. Ogni comportamento, anche il più meschino, trova una giustificazione dotta. Wu Jingzi non attacca il pensiero confuciano in sé: attacca la sua riduzione a ideologia di carriera.
In questo senso Storie indiscrete dei letterati è un romanzo profondamente moderno. Non denuncia un singolo abuso, ma un intero sistema culturale. Mostra come un sistema educativo possa produrre conformismo, come l'intellettuale possa trasformarsi in funzionario dell'ordine, come la morale, quando diventa mestiere, finisca per corrompersi. Dall'intellettuale impegnato a quello impiegato, il passo è breve e solitamente disastroso.
Non mancano figure marginali più limpide: eccentrici, reclusi, uomini che rifiutano la carriera. Ma non sono veri modelli alternativi. Appaiono come scarti, non come soluzioni. Wu Jingzi non offre vie di fuga: registra un fallimento
collettivo.
Dal punto di vista stilistico, la prosa è volutamente piana. Niente virtuosismi, niente lirismo. Il linguaggio serve a esporre, non a sedurre. Questa sobrietà rafforza l'effetto satirico: il ridicolo nasce dai fatti, non dall'enfasi. È una scrittura che osserva e annota, come un verbale morale.
Il titolo è programmatico. «Indiscrete» non perché scandalistiche, ma perché rivelano ciò che dovrebbe restare nascosto: il vuoto dietro la facciata. Wu Jingzi pratica una letteratura dell'indiscrezione come forma di verità. Non accusa dall'esterno, ma tradisce dall'interno.
Letto oggi, il romanzo conserva una sorprendente attualità. Ogni epoca che sacralizza i titoli, ogni sistema che confonde competenza e conformità, ogni intellettuale che scambia il pensiero per una carriera può riconoscersi in queste pagine. Storie indiscrete dei letterati va anche oltre. Quando l'intellettuale sposa il potere, finisce con l'assumerne i difetti. Come nelle vecchie coppie unite in matrimonio da decenni. L'intellettuale diventa dunque ampolloso e vuoto, moralmente rigido con gli altri e moralmente frigido con se stesso.
Finisce così dappertutto, probabilmente in tutte le epoche tranne nell'Italia contemporanea. Qui è la sinistra ad assumere i difetti dei suoi intellettuali.
Buttate a mare le battaglie sul lavoro, i partiti si gettano nella guerra del politicamente corretto. Hanno rinunciato a cambiare la realtà per cambiare il vocabolario. Sono usciti dalle fabbriche per entrare in salotto a verificare che tutti usino le buone maniere e non dicano le parolacce.