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"Istruzione e salari scarsi: così l’Italia non cresce"

Lo studioso: "Merito e scuole davvero competitive sono le uniche armi per ridurre la disuguaglianza"

"Istruzione e salari scarsi: così l’Italia non cresce"

Scuola e lavoro sono i due poli tra i quali si disegna la crisi del Paese Italia. Temi che Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati all'Università di Torino e presidente della Fondazione «David Hume», conosce molto bene e su cui riflette anche nel suo nuovo libro, La rivoluzione del merito (Rizzoli).

Professore, per Lei l'articolo 34 della Costituzione «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» è fondamentale. Talento e impegno per vincere la disuguaglianza.

«Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti della Repubblica e una delle figure più nobili dell'antifascismo, riteneva fosse l'articolo più importante della carta. E sa perché? Perché pensava che il problema fondamentale dell'Italia uscita dal Fascismo fosse la formazione della classe dirigente, e che per rinnovare ed elevare la qualità della classe dirigente fosse fondamentale che ne facessero parte persone provenienti da tutti i ceti sociali. Il che, per lui, non significava stabilire delle quote di classe - un po' come oggi certo femminismo, che si batte per le quote rosa - ma mettere tutte le classi sociali in condizione di raggiungere i gradi più alti degli studi».

Se anche i meno abbienti possono ambire a posti decisionali è più facile assicurare un ricambio della classe dirigente.

«Che è quello che è mancato all'Italia. Il nostro problema non è la diseguaglianza, ma l'immobilità sociale: il destino sociale delle ragazze e dei ragazzi, ancora oggi, dipende ancora troppo dalla classe sociale di origine».

A cosa deve servire la scuola pubblica?

«Innanzitutto ad innalzare il livello di istruzione reale dei figli di tutti i ceti sociali. La realtà, invece, è che si è occupata di alzare il livello nominale di istruzione. Una licenza di terza media presa nel 1965 valeva di più di una licenza liceale odierna. E il livello di competenza linguistica di un laureato odierno è, in media, inferiore a quello di un diplomato del liceo alla fine degli anni '60. È accaduto così che studiamo circa cinque anni di più che mezzo secolo fa, ma il livello medio di istruzione reale non è aumentato. E poi l'altra cosa che la scuola avrebbe dovuto fare è ridurre le diseguaglianze di fronte all'istruzione, aumentando la mobilità sociale».

E invece a cosa si è ridotta la scuola?

«Ci sono indizi che sia successo esattamente il contrario: la scuola democratica si è rivelata una macchina della disuguaglianza, perché l'abbassamento della qualità dell'istruzione ha danneggiato più i ceti popolari che quelli alti. I primi hanno un'unica arma a disposizione, la preparazione, i secondi ne hanno tantissime: reddito, patrimonio, capitale culturale, sistema delle conoscenze, ripetizioni... Se abbassi il livello di preparazione, togli ai ceti bassi l'unica arma con cui possono competere con quelli alti».

Perché nella scuola italiana si è progressivamente abbassata l'asticella? Niente esami di riparazione, la laurea 3 +2, via i voti...

«Perché tutte le forze politiche hanno avuto paura di perdere consensi presso le famiglie. C'è stato un momento in cui per la maggior parte delle famiglie è diventata più importante la serenità dei figli, che la loro istruzione. All'imperativo di dar loro una cultura, è subentrato quello di parcheggiarli a scuola e garantirgli il pezzo di carta. Quanto al corpo insegnante, ideologicamente molto sbilanciato a sinistra, è mancata la volontà di difendere il proprio ruolo e la propria funzione. O meglio, si è ripensato radicalmente il proprio ruolo, sempre meno culturale, e sempre più socio-assistenziale. Un trend perfettamente colto dalla stragrande maggioranza dei film e delle serie tv sulla scuola, che mostrano insegnanti-amici degli allievi anziché insegnanti-maestri di cultura».

Una scuola che non premia il merito e il sacrificio non è un buon viatico al mondo del lavoro.

«Il mercato del lavoro è spietato e riconosce agevolmente le false certificazioni. Se la scuola certifica competenze che non hai, provvede il mercato a ristabilire il tuo vero valore. Di qui il senso di frustrazione di tanti giovani, illusi dalla scuola e delusi dalla realtà».

Lei ha messo in guardia dal rischio che il reddito di cittadinanza immetta nella società un parassitismo di massa dove sono di più quelli che non lavorano rispetto a quelli che lavorano.

«Bisogna distinguere fra sussidi e incentivi. I sussidi hanno senso nelle situazioni estreme. Famiglie a bassissimo reddito, poveri sotto la soglia di povertà assoluta, persone non in grado di lavorare. Da questo punto di vista il reddito di cittadinanza riformato (o assegno di inclusione) va bene. Al di fuori di queste situazioni, quel che può avere senso sono gli incentivi: le borse per i capaci e meritevoli, la detassazione per le imprese che aumentano l'occupazione, il sostegno alle imprese che più investono. Infine, c'è un'altra classe di misure che trovo ragionevoli: i sussidi temporanei a famiglie a basso reddito e imprese in difficoltà, quando si configurano come misure temporanee volte a superare una contingenza economica negativa. Quel che invece trovo poco razionale sono i bonus che, specie in edilizia, coprono una frazione eccessiva dei costi, come il cosiddetto 110%, una vera follia».

Perché l'Italia rimane un Paese in cui si registra il calo dei salari reali tra i più forti in Europa?

«Perché da noi la produttività è ferma da un quarto di secolo, cosa che non succede in nessuna altra società avanzata».

Il nodo immigrazione. Quanto pesa sulle politiche del lavoro in Italia?

«Più che sulle politiche del lavoro, il nodo immigrazione pesa sui salari degli italiani. Difficile dire quanto, ma mi sembra ingenuo pensare, come molti a sinistra, che nel nostro Paese non esista dumping salariale. Poi c'è l'altra faccia della medaglia: l'immigrazione, grazie ai bassi salari, fa ricchi gli imprenditori, grandi e piccoli, regolari e irregolari. E non dispiace ai ceti medi riflessivi, che non vivono in quartieri degradati, e sono ben lieti di frequentare ristoranti etnici e disporre di badanti e colf a basso costo».

Cosa pensa quando sente Giorgia Meloni parlare di lavoro?

«Penso che, fin dal 2014 quando puntò sul maxi-job (una misura proposta dalla fondazione Hume per incrementare l'occupazione), la nascita di nuovi posti di lavoro sia la sua priorità, non certo la flat tax. Pochi paiono rendersene conto ma, in materia economica, la stella polare di Giorgia Meloni non è Milton Friedman, con la sua fiducia totale nel mercato, ma semmai Keynes, con il suo sogno della piena occupazione. Il che, in concreto, significa puntare tutte le carte sulla riduzione del cuneo fiscale, per ora a beneficio dei lavoratori, ma in prospettiva anche a vantaggio delle imprese, e non sulla riduzione dell'Irpef».

E quando sente Elly Schlein?

«Resto incredulo.

Come fa a non capire che l'immigrazione comprime i salari? Che i beneficiari principali di un eccesso di manodopera straniera sono i datori di lavoro? Che i costi delle politiche green sulla casa e sull'auto sono sostenibili per i ceti medi, ma proibitivi per i ceti bassi? Che le principali vittime dell'immigrazione incontrollata sono gli strati popolari, che vivono nei quartieri più degradati, e patiscono la concorrenza degli immigrati nell'accesso ai servizi sociali? Penso che, se dovesse rinascere in Italia una destra classica, sensibile alle istanze dei ceti medio-alti, e sorda a quelle degli strati popolari, Elly Schlein sarebbe perfetta per guidarla».

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