"Le luci di notte, i baci e il Festival di Sanremo. Così ho scoperto il suono della libertà"

Intervista a Ermal Meta. L'infanzia in povertà in Albania, il crollo del regime di Hoxha, l'arrivo in Italia a 13 anni, il perfezionismo per imparare la nostra lingua e il suo romanzo, che racconta una faida infinita: il cantante si confessa

"Le luci di notte, i baci e il Festival di Sanremo. Così ho scoperto il suono della libertà"

Le camelie invernali (La nave di Teseo) è il secondo romanzo di Ermal Meta, cantante di origine albanese (nato a Fier nel 1981) noto a tutti, tra l’altro, per aver vinto un Festival di Sanremo insieme con Fabrizio Moro. Era il 2018, il brano si intitolava Non mi avete fatto niente. Nelle Camelie invernali, due famiglie albanesi sono legate dalla misteriosa scomparsa di una bambina e dalla antica legge del taglione nota come kanun. Due ragazzi, Samir e Uksan, amici fraterni, devono imparare ad aver paura uno dell’altro. Siamo nel 1995. Dieci anni più tardi, nel 2025, una giornalista italiana di origini albanesi torna in Albania per intervistare un uomo che vive isolato da trent’anni. A causa del kanun o del rimorso? E qual è il legame con i due ragazzi? Ve lo lasciamo scoprire. Ne parliamo con l’autore in due occasioni, in luglio, a Ravenna e a Bormio, in occasione della Milanesiana, rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi.

L’intelligenza artificiale, in campo musicale, viene già comunemente utilizzata, è una cosa che la spaventa?

«Mi spaventa, io non l’ho mai usata. Molti musicisti utilizzano l’Ia per gli scopi più diversi a partire dal suono. La Ia si basa su calcoli, su algoritmi ma c’è una cosa che non può prevedere: l’errore. A causa di alcuni errori, soprattutto in studio, nascono cose bellissime. Questo ce lo insegna la parte analogica della musica, tastiera analogica, registratore a nastro, mixer. Nell’analogico uno più uno non fa necessariamente due, ci sono tante variabili. Invece nel mondo digitale uno più uno fa sempre due. Questo porta a un appiattimento generale».

La storia dell’Albania fa da cornice al nuovo romanzo, Le camelie invernali. Lei ha vissuto fino ai tredici anni in Albania. C’era ancora il comunismo. Cosa ricorda?

«Mi ricordo il giorno in cui morì il dittatore, Enver Hoxa, avevo 4 anni, era il 1985. Piangevano tutti. Era un paese in lacrime, eppure tragicomico. I fedeli al regime venivano a controllare, a casa tua, se avevi la foto scattata vicino alla tomba di Hoxa. Anche i più poveracci – lo eravamo tutti all’epoca ma c’erano quelli che lo erano più degli altri – dovevano recarsi alla tomba e farsi una foto col pugno chiuso alzato. Il dittatore, che possa riposare all’inferno, ha lasciato ferite ancora visibili. Tutti in Albania avevano paura di tutto. Accadevano cose incredibili. Il dittatore parlava dell’Albania roccaforte del leninismo sulle sponde dell’Adriatico. Tutti ci volevano invadere e, per convincerci, ha disseminato l’Albania di bunker. E le strade? Non c’erano strade dritte, neppure quelle in pianura. Dopo due o trecento metri arrivava una curva. La propaganda diceva che non dovevamo permettere agli aerei nemici di atterrare. Non si poteva ascoltare la musica straniera. Era facile prendere Raiuno dalle città di mare ma tutti quelli che venivano beccati a guardare la tv straniera e ad ascoltare alla radio canzoni italiane venivano arrestati. Le canzoni di Sanremo le conoscevano tutti: quella era l’unica settimana dell’anno in cui persino le spie del quartiere, perché ogni quartiere aveva le sue spie, guardavano Raiuno. Tutti conoscevano i brani ma nessuno poteva cantarli».

L’Albania è stato l’ultimo paese europeo a liberarsi?

«Sì, nel 1991. Ricordo le ambasciate straniere a Tirana. Erano state occupate da giovani desiderosi di partire e andare in Germania, Francia, Italia... Le madri da una parte dell’inferriata piangevano disperate nel vedere i figli dall’altra... Prendevano loro le mani e li pregavano di tornare in Albania, come se al di là di quel cancello persino l’aria fosse straniera. Nel frattempo, la folla aveva preso la statua simbolo del dittatore, a Tirana, e l’ha buttata giù; e lo stesso è stato fatto con le statue del dittatore di tutte le altre città. Nella mia, la statua è stata buttata nel fiume e tutti dovevano passare a lanciargli una pietra: la lanciai anch’io ma lo mancai».

Quanti anni aveva quando è arrivato in Italia?

«Tredici, era il 1994».

Qual è la cosa che l’ha colpita subito dell’Italia?

«C’erano tante luci di notte, non ero abituato. Mi hanno colpito le persone che si baciavano per strada, non avevo mai visto due persone baciarsi perché in Albania l’amore e i sentimenti erano tabù. Poi i ragazzini sovrappeso, li notai appena sceso dalla nave: noi, in Albania, facevamo la spesa con la tessera annonaria e mangiavamo quello c’era, che non era molto. Quindi eravamo tutti magri».

Veniamo al libro. Lei racconta una storia dove, una volta finito il regime, riemergono leggi ancestrali. Vuole spiegare cos’è il kanun, la antica legge al centro della trama?
«Il kanun nasce alla fine del quindicesimo secolo. Prima comprendeva vari aspetti della vita. Col tempo è diventato solo la legge che regolamenta la vendetta. La legge dice che se una persona ne ammazza un’altra, la famiglia del morto ha diritto a lavare il sangue del proprio defunto col sangue di un maschio della famiglia dell’assassino. La vittima designata deve avere più di 12 anni e l’omicidio non può avvenire dentro casa. Tutti i possibili bersagli si chiudevano in casa per evitare la vendetta. Questo comportava disagi pazzeschi soprattutto all’interno di una società così patriarcale dove l’uomo contava tutto e la donna niente. Purtroppo dopo cinque secoli questa legge è ancora presente in Albania, ci sono ancora 1200 famiglie colpite dal fenomeno. Ci sono faide che vanno avanti da così tanto tempo... Coloro che devono vendicarsi, non sanno più perché devono ammazzare quell’altro. A volte sono passati 70, 80, 90 anni e le ragioni si sono perse nel tempo. La vendetta può essere fermata solo in due modi: o la famiglia a cui tocca uccidere perdona e dice mi fermo qui oppure il perdono viene comprato. È molto raro il secondo caso, e il primo anche di più. Durante gli anni della dittatura comunista il kanun sembrava svanito del tutto. Col crollo del regime ha ripreso vigore».

E qui veniamo alle Camelie invernali...

«Il libro parla appunto di due ragazzi di 18 anni, Oxan e Samir, che hanno sogni e anche domande sulla loro vita, hanno desideri e immaginano cose. Hanno anche paura, ma sono di più i sogni. Quando il padre di uno uccide quello dell’altro i due finiscono per dividersi: Oxan guarda il mondo dalla sua finestra e Samir si trova dall’altra parte col fucile in mano pronto a ucciderlo anche se non vuole farlo, così come l’altro non vuole morire. La regola è ferrea, non si può disonorare la famiglia, però loro non vogliono diventare uno vittima e l’altro un assassino. Nessuno dei due vuole accettare il destino. Se avrete voglia di leggere il romanzo, scoprirete come va a finire».

Perché Le camelie invernali?

«Il fiore è un simbolo di resistenza e di speranza. La camelia è un piccolo fiore in grado di sfidare l’inverno, sboccia quando tutto il resto si “nasconde” perché la natura vuole così. Non tutto può finire durante l’inverno, anche quando la vita sembra più difficile, il piccolo fiore continua a esistere».

Conosceva già la lingua italiana quando è arrivato in Puglia?

«Capivo l’italiano della televisione. Appena messo piede in Italia ho capito che non lo padroneggiavo come avrei voluto. Una lingua non la impari dalla televisione.
Ho imparato bene l’italiano con Antonello Venditti e Maurizio Costanzo. Quando ho conosciuto Antonello Venditti gli ho detto: maestro!»

E lui?
«Mi ha detto: non mi chiamare maestro. E io gli ho spiegato: maestro di lingua italiana, perché io ascoltavo le tue canzoni e scrivevo i testi, avevo quaderni dove mi segnavo tutto».

Invece Maurizio Costanzo?
«Ogni sera c’era il Maurizio Costanzo Show con ospiti diversi che parlavano in maniera diversa».

E la scuola?

«Un giorno feci un errore parlando con una mia compagna di classe. In Albania, ogni mio tema veniva esposto nella bacheca della scuola perché era il più bello e quindi un po’ stavo antipatico ai miei compagni, sicuramente. Poi ho attraversato il mare e imi sono reso conto di non essere capace di tradurre correttamente i miei pensieri. Un giorno a scuola parlando coi miei compagni dissi una parola per un’altra, feci un errore madornale e venni corretto subito, no non si dice così e mi bruciò tantissimo. Invece di dire “abitudine” dissi “abituazione”, dopo 31 anni riesco ancora a sentire il senso di vergogna. La mia compagna, mia amica, Gloria, disse: no, si dice abitudine. Da quel momento cominciò uno studio matto e disperatissimo soprattutto della grammatica e del vocabolario».

Il libro tocca temi universali. Ad esempio, le radici. Sono una risorsa o un freno?

«Sono un posto sicuro, io penso che le radici contribuiscano per una grande parte a quello che noi siamo, a quello che diventiamo. Poi io penso di avere delle doppie radici perché alcune radici sono in Albania, da qualche parte io lì ci sono rimasto, avevo 13 anni quando sono andato via ma una parte di me è rimasta lì indubbiamente. Forse i libri che scrivo trattano dell’Albania per andare a ricercarmi in qualche modo».

E la famiglia? Nel libro ci sono delle famiglie con un genitore violento...

«Certo, sì, i primi dieci anni della mia vita sono stati così, ho avuto la fortuna di avere una madre estremamente protettiva perché dall’altra parte invece non era proprio del tutto così, il contrario. Sono cresciuto senza un genitore, ma dal momento in cui sono diventato genitore io mi sembra strano anche doverne parlare perché è come guardarsi troppo indietro, a un certo punto non serve più».

Lei ha una figlia naturale e due adottate.

«Nel giro di poco siamo diventati cinque, ho una figlia biologica e altre due ragazze che sono arrivate da poco anche se le conosciamo da qualche anno. Tempo fa ho fatto un concerto in Albania, e poi sono andato a visitare una casa famiglia per la quale avevo raccolto un po’ di fondi. È molto difficile dimenticare quello che provi una volta che entri in contatto con queste realtà.

In realtà non ho ancora capito cosa significa fare il padre e forse non l’avrò capito neanche fra vent’anni».

Non si capisce mai.

«Questo mi rincuora (ride, ndr). Non riuscivo a ignorare il fatto che, dopo averle conosciute, io mi sentissi diverso. Non potevo mettere a tacere questa voce».

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