Leggi il settimanale

Luigi Chiarini, l’intellettuale fascista che passò con più classe all’antifascismo

Grande uomo di cinema, è il simbolo della generazione Littoria riciclatasi a sinistra

Luigi Chiarini, l’intellettuale fascista che passò con più classe all’antifascismo

La bella biografia critica che Claudio Siniscalchi ha scritto su Luigi Chiarini - L'ultimo titano della cultura cinematografica italiana. Luigi Chiarini, 1900-1975 (Eclettica, pagg. 214, euro 16) ripropone un tema annoso nel dibattito culturale italiano, per quanto dal punto di vista storiografico ormai da tempo pacificamente risolto. Detto in breve, da Renzo De Felice in poi si sa che ci fu una cultura fascista, idee, scrittori, movimenti, artisti, un'ideologia, meglio, più ideologie del fascismo, un consenso politico che fu anche un consenso intellettuale. È la registrazione di un dato di fatto, non un giudizio di valore, allo stesso modo di come studiando nelle Crociate la validità dell'Islam non per questo si diventi maomettani.

E tuttavia, il lavoro degli storici si fa lettera morta non appena, superata quella soglia, si entra nel mondo del politicamente corretto e della moralità, meglio, del moralismo a basso costo, ma ad alto tasso di faziosità, dove il termine «fascismo» diventa un corpo contundente da sbattere sulla testa del malcapitato di turno che la pensa diversamente dai sacerdoti del pensiero unico.

Il caso di Luigi Chiarini (Roma, 1900-75) è, sotto questo aspetto, particolarmente significativo perché stiamo parlando del più importante operatore della cultura cinematografica italiana tra gli anni Trenta e la metà degli anni Settanta del Novecento; fondatore e animatore del Centro sperimentale di cinematografia; autorevole critico e teorico del cinema; regista; professore universitario; direttore della mostra di Venezia.

Detto questo, Chiarini fu anche «giornalista di regime», formatosi al pensiero di Giovanni Gentile; funzionario della propaganda, a fianco di Ligi Freddi, uomo chiave della politica cinematografica del fascismo; collaboratore di Telesio Interlandi e della sua rivista La difesa della Razza, intellettuale scopertamente e dichiaratamente fascista sino al 1943. Uno e bino, insomma, transitato dal fascismo all'antifascismo senza soluzione di continuità.

Qualche domanda in materia, dunque, è forse il caso di farsela, tenendo oltretutto presente che il Centro sperimentale, le sue riviste, Cinecittà, la stessa Mostra del Cinema furono creature e creazioni del fascismo, il che fa un po' sorridere quando si pensa a quei registi e a quegli attori che a ogni ciak rivendicano l'antifascismo del cinema italiano.

Nella sua disanima Siniscalchi parte da un punto che resta fondamentale e che ha a che fare con la teoria della dissimulazione, avallata da Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista all'indomani della fine della guerra e teorizzata da quegli intellettuali che, buttata via la camicia nera indossata sino al giorno prima, dovevano in qualche modo giustificare quella rossa che ne aveva preso il posto. Il più illustre di questi, nel senso che ne fu un po' il battistrada, fu Ruggero Zangrandi, autore del libro Il lungo viaggio, uscito in prima edizione nel 1948 e poi, in una nuova e ampliata versione, nel 1963 e con il titolo, più esteso, di Il lungo viaggio attraverso il fascismo, e che si rivelerà un vero e proprio bestseller dell'epoca.

La teoria di Zangrandi era molto semplice: nato nel 1915, appartenente alla cosiddetta «generazione del Littorio», lui e quelli come lui non erano mai stati fascisti: «credevano» di esserlo, ma nel contempo erano «frondisti» e «dissimulatori», anche se, all'epoca, nessuno se n'era accorto. Intorno ai vent'anni, il suo diventa «un antifascismo inconscio», una categoria politologica sconosciuta quanto bislacca, intorno ai ventiquattro, ovvero il 1939, per lui, per i suoi coetanei «la coscienza politica antifascista è precisa, determinata, motivata, maturata verso un orientamento nettamente di sinistra». Con lo scoppio della guerra, insomma, la generazione di Zangrandi ha terminato il suo «lungo viaggio» ed è pronta a rompere definitivamente i ponti con il fascismo. Nella sua ricostruzione di una generazione innocente, illusa e poi tradita, Zangrandi omette di ricordare due cose che lo riguardano direttamente. La prima è che nel 1938 ha scritto Universalfascismo, che è un inno alla rivoluzione fascista e al radioso futuro che la attende. La seconda è che nel 1939 ha scritto Il comunismo nel conflitto spagnolo, dove spiega come e perché il fascismo abbia fatto bene a fermare «la peste bolscevica»...

Se per Zangrandi l'età può essere una scusante, ovvero la storia di una generazione che è praticamente nata e cresciuta sotto il fascismo, il caso di Chiarini assume un altro spessore, nella ricostruzione che ne fa Siniscalchi. Ai tempi della Marcia su Roma Chiarini è già un gagliardo ventenne e in seguito partecipa in maniera convinta e coerente a quello che è un dibattito all'interno del fascismo stesso dove l'estrema sinistra di Suckert-Malaparte e dei cosiddetti repubblicani nazionali si confronta con il centro-sinistra dei Rossoni e dei Panunzio, con la destra estrema dei Carli e dei Settimelli, con il centro-destra di Bottai, con i revisionisti che ruotano intorno al giornale Rivoluzione fascista. E ancora: ci sono i futuristi e i gentiliani, i corporativisti... Per questa generazione si è soliti usare il termine di «redenti», nel senso di «nati due volte», culturalmente battezzati prima nel fascismo e poi mondati al fonte battesimale dell'antifascismo. La tesi che ne deriva è però riduttiva, nel senso che, come ben spiega Siniscalchi, all'interno di quell'unico nome non c'è una sola categoria, ma tante: «i pentiti» come Ugo Indrio, «i voltagabbana» come Davide Lajolo, «le code di paglia», come Guido Piovene... Eugenio Garin, da filosofo, vi aggiungerà persino «i nicodemiti», un termine più colto per definire, al solito, gli antifascisti «dissimulatori», attirandosi il sarcasmo di Giorgio Amendola, antifascista, confinato, esule e comunista: «La dissimulazione è un'attività difficile da compiersi: esige grande sicurezza, certezza di prospettive e, alle spalle, una copertura, un partito clandestino, un organismo illegale»... radotto: in Italia non c'era niente del genere, se non nella fantasia di Garin.

La verità è che, dopo il 1945, gli intellettuali del periodo fascista e quelli del periodo repubblicano sono più o meno gli stessi, ma al di là di giudizi malcerti, di pericolose quanto inconfessabili condiscendenze, di auto-assoluzioni, pressoché nessuno racconta veramente il proprio itinerario politico-intellettuale durante il fascismo. Tanto meno lo fa Chiarini, che del Ventennio è stato un campione in tutti i sensi, antisemitismo compreso, e che nel dopoguerra si avvicina prima al comunismo e poi, visto l'affollamento e la concorrenza, si sposta verso il socialismo. Si crea così un'ulteriore e nuova vulgata, quella del Chiarini studioso, organizzatore e conduttore del Centro sperimentale che trasforma quest'ultimo in una scuola di antifascismo. Solo che per Chiarini «il fascismo è una civiltà: un complesso di sentimenti, opere, pensieri assai più vasto di una scuola filosofica, di una dogmatica religiosa o comunque di una libresca dottrina»...

Una cosa che si tende a dimenticare è che, nel quindicennio che segue la fine della guerra, di la dà polemiche personali e/o regolamenti di conti, tutta la classe intellettuale italiana presente sulla scena, la «generazione del Littorio» di Zangrandi come quella dei «redenti» di Chiarini, ha avuto le mani in pasta con il fascismo. Tranne le solite eccezioni e che però confermano le regole, non c'era nessuno che additando un altro al pubblico ludibrio per il suo fascismo pregresso, non se lo vedesse rimbalzare addosso. Ancora nel 1949, per fare un solo esempio, Curzio Malaparte, nel replicare al comunista Carlo Muscetta che l'ha stroncato come fascista su l'Unità, ovvero il quotidiano del suo partito, gli rinfaccerà il libro Avventure e scoperte, del 1941, dove gli osanna a Mussolini andavano di pari passo agli elogi a Mario Appelius, quello di «Dio stramaledica gli inglesi»... Per dirla con Leo Longanesi, «In Italia non si può fare la rivoluzione perché ci si conosce tutti»!

Le cose cambieranno nella seconda metà degli anni Sessanta, quando giovani generazioni crescono, il quadro politico è in mutazione e va orientandosi verso i governi di centro-sinistra e la «caccia al fascista» può rivelarsi proficua per chi, ormai trentenne, non ha dietro di sé un Ventennio di cui rendere conto. È ciò che nel 1968 accadrà a Chiarini, direttore di una mostra del Cinema che non vuole cedere al vento della contestazione proveniente da Cannes e dal Maggio francese. Gli verrà scaricato addosso il suo fascismo d'antan, di cui tutti sapevano, ma di cui nessuno, lui compreso, aveva mai parlato. E sarà anche l'unica volta che, in un'intervista, affronterà il tema: «Sono stato fascista credendoci.

Non sono di quelli che negano di essere stati fascisti o che dicono di esserlo stati in malafede. Io sono sempre stato un uomo libero: da fascista e dopo». Troppo tardi e sempre troppo poco. L'anno dopo, verrà fatto fuori dalla Mostra.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica