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Un delitto che sconvolge l'alta borghesia della Sicilia degli anni '70

Anteprima, per gentile concessione della Casa Editrice Piemme, del primo capitolo del romanzo: "L'ultima ombra d'estate" di Mario Mattia

Un delitto che sconvolge l'alta borghesia della Sicilia degli anni '70

TEMPO 1

«...sette, otto, nove!» Marco contò i rintocchi dell’orologio che stava in cima al palazzo del Comune e decise che era arrivato il momento di alzarsi.Da almeno mezz’ora guardava la luce del sole di agosto che filtrava dalle fessure delle veneziane e illuminava di taglio un pupo siciliano appeso alla scrivania di fronte al suo letto. Si divertiva a immaginare scenari dove Orlandi e Rinaldi, animati da forze diaboliche, si aggiravano per le stanze, i saloni e i corridoi della casa di zia Marta, se- minando il panico tra i parenti e sgozzando le cameriere che da almeno due ore sbattevano tappeti e sistemavano le camere da letto parlando ad alta voce. Solo Caterina, mezza cieca e piegata in due dalla vecchiaia, di tanto in tanto le riprendeva dicendo: «Sssshhh, stativi mute ca u signurinu ancora dorme!».

U signurinu era lui. Ogni volta che sentiva quell’appellativo un po’ si arrabbiava, ma ormai, dopo tanto tempo, si era abituato alle stranezze di casa Guerrera. Come tutte le estati, infatti, Marco era stato spedito a casa degli zii di Licata per il mese di agosto. E così anche quell’anno avrebbe dovuto sopportare i pigri rituali di quello strano paese di mare, spesso ricoperto dalla sabbia giallastra sahariana portata dallo scirocco. Uno strato che ricopriva case e strade in una monotonia di colore cui contribuiva la pietra arenacea delle case e rotta solo dal potente blu verdastro del mare. Dopo colazione e dopo le raccomandazioni di zia Marta, sempre piene di fantasie ossessive fatte di incidenti mortali che sarebbero accaduti a chiunque si fosse allontanato dal suo sguardo, Marco uscì per raggiungere la baia della Mollarella, non distante dal paese e meta preferita delle due cugine che da sempre si erano occupate di lui durante il mese di permanenza più o meno forzata. Lui veniva da Catania e al mare era abituato, ma ogni volta che arrivava nella baia restava almeno due minuti a bocca aperta a fissare quel blu dalle mille sfumature, a tratti glaciale e luccicante nel sole di agosto, così diverso dal rassicurante azzurro della Playa, la spiaggia a sud della sua città.

Le cugine erano più grandi di lui; una si sarebbe sposata di lì a poco e l’altra cercava di godersi tutto il sole possibile prima di tornare a studiare alla Normale di Pisa. Ogni volta che arrivavano in spiaggia c’era il rituale dei saluti, lunghissimo e noioso, più o meno con le stesse persone. E poi l’infissione dell’ombrellone e la ricerca dell’angolo giusto per distendere gli asciugamani, mediato tra la corretta esposizione al sole e il riparo dagli sguardi di giovanotti sorridenti. Ma quell’anno c’era una novità. Marco si rese conto che la schiera di ragazzini e ragazzine che frequentava da anni e che bivaccavano sul bagnasciuga tra giocate a pallone, tuffi e calummate (l’odioso scherzo di spingere sott’acqua qualcuno) non era più una massa informe in cui i singoli individui erano distinguibili solo per il colore del costume o per l’accento del dialetto. Lunghe trecce pettinate di continuo e costumi diventati assai più castigati rispetto a quelli indossati negli anni precedenti, erano infatti aumentati di numero rispetto all’anno passato.

Marco stava riflettendo sui «ridicoli pregiudizi piccolo borghesi», come li chiamava lui, quando sua cugina Sandra lo toccò su un braccio. «Marcù, vedi che Tiziana Turchio ogni mattina ti fa la radiografia!» Marco arrossì. «Che mi fa?» «Avà, Marcù, non fare il cretino! Si vede lontano un miglio che le piaci, fattelo dire da una femmina» disse indicando se stessa. Lui diventò paonazzo, e doveva vedersi anche attraverso il bruno dell’abbronzatura perché la cugina scoppiò a ri- dere come sapeva fare solo lei, con piccoli urletti soffocati e a bocca chiusa. «Che ridi, Sandrì?» ribatté con aria annoiata l’altra cu- gina, Annamaria, tornando per un attimo dal suo pianeta fatto di inviti, tovaglie da tavola e bomboniere. «Nenti, nenti, Marì, mi sa che nostro cugino ha fatto colpo!» Quella notizia sembrava aver scosso la nubenda cugina che si rialzò con uno scatto, ricordandosi di essere la più grande e dunque depositaria dei doveri di tutela fisica e morale del cugino. «Cu è sta svriugnata?» chiese a denti stretti guardan- dosi attorno. «Ma quale svergognata, Marì... comunque è Tiziana Turchio, la figlia dell’onorevole Turchio, la sua amichetta fin da quando erano bambini.»

«Ah... almeno è un buon partito!» rispose Annamaria con una buffa smorfia di stupore. «Tua cugina Marì ha ragione, Marcù, se puoi, tienitela stretta perché suo padre è uno degli uomini più ricchi di Licata e forse di mezza Sicilia!» «Ma fatevi i fatti vostri, pettegole» ribatté Marco tirando una manciata di sabbia ad Annamaria, ben conoscendo la sua insofferenza per quello scherzo. «Marcù, scimunito, che fai? Ora vado da Tizianuccia a dirle che il mio cuginetto la ama!» E, a occhi chiusi e mento alto, si ripulì dalla sabbia e si diresse, invece, verso il mare. Marco la guardò allontanarsi verso una striscia di roccia che emergeva a una cinquantina di metri dalla spiaggia, dove la cugina era solita fermarsi a riposare, e poi si alzò anche lui per passeggiare sulla riva. Nella confusione di un giorno di agosto, tra madri che gridavano a ragazzini e ragazzine di stare attenti e intimavano loro di uscire dall’acqua «se no ti vengono le rughe nelle dita», Marco avvertì di nuovo il peso di tutte quelle cose che nessuno dei suoi parenti licatesi sapeva e che lo costringeva a mostrare quella immagine di ragazzo sorridente e gentile cui erano abituati.

E invece quell’anno era diverso. Tutto era cambiato durante l’inverno. Insieme alla rabbia che aveva sentito crescere dentro. Il film su Sacco e Vanzetti, la scoperta della politica attiva, il libro con le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana che avevano distribuito a scuola e che aveva letto in una notte. E poi i cortei in via Etnea, le riunioni alla sede della fgci e alla Camera del Lavoro, le risse con i fascisti davanti l’ingresso del Cutelli, il liceo dove studiava.

QUESTURA DI CATANIA – UFFICIO POLITICO

Oggetto: Informativa attività politica Laudani Marco
Il soggetto in questione risulta attivo in formazioni politiche dell’estremismo comunista e, nel volgere di pochi mesi, ha affiancato Urzì Davide (vedi informativa n° 2221 del 14 aprile 1971), Caudullo Mario e Asciolla Vincenzo (in attesa di giudizio per rissa aggravata) alla guida delle iniziative volte a consolidare ed espandere gruppi di ideologia extraparlamentare all’interno della città. Fermato in due occasioni e identificato nell’ambito del corteo non autorizzato del 22 maggio 1972, ha mostrato un atteggiamento poco collaborativo con le Autorità. Si suggerisce vigilanza sul soggetto in questione. Si dispone di informazioni relative alla sua partecipazione a «spedizioni punitive» nei confronti di alcuni giovani esponenti del msi e del Fronte della Gioventù.

E la convocazione dei suoi genitori al Tribunale per i minorenni. I pianti di sua madre e l’indifferenza di suo padre. Aveva accettato di fingere di essere quel bravo ragazzo sorridente e allegro che i suoi parenti di Licata credevano fosse ancora solo perché aveva letto il terrore negli occhi della sorella più piccola, dopo l’ennesima lite con sua madre. Quando arrivò all’altezza del gruppetto delle ragazze radunate all’ombra di una tettoia realizzata con foglie di palme secche, si voltò a guardare verso di loro, suscitando sguardi e bisbigli all’orecchio. Tutti sapevano dell’intesa che, da molto tempo, esiste- va tra lui e Tiziana, compagna di giochi fin da bambini. Ma nemmeno lei sapeva tutto della sua vita a Catania. E qualche sguardo preoccupato dell’amica durante le loro discussioni lo aveva convinto a non dire troppo su ciò che da ormai molti mesi gli bruciava dentro.

Il fatto, però, che sua cugina si fosse accorta che il rapporto tra lui e Tiziana stava virando verso qualcosa di nuovo lo infastidiva parecchio. E magari adesso lo avreb- be saputo sua zia e la sera stessa sua madre gli avrebbe chiesto di Tizianuccia. All’oscuro di tutto, Tiziana si alzò dalla piattaforma di legno, passandosi le mani sulle lunghe gambe per scuotersi la sabbia di dosso e si avvicinò a Marco. «Perché quella faccia?» «Le mie cugine certe volte sono insopportabili.» La ragazza fece un gesto di fastidio. «Le tue cugine sono famose in tutto il paese per la loro linguaccia.» Marco sorrise e guardò gli occhi castani di Tiziana, luccicanti nel sole di agosto. «Vieni a farti un altro bagno?» «Non posso... devo andare via... Senti, perché non vieni a trovarmi domani mattina? Ti ricordi dov’è casa mia?» Si ricordava benissimo della abitazione estiva dei Tur- chio. Una gigantesca villa antica a Monserrato, a pochi chilometri dalla spiaggia, circondata da alberi e con una vista mozzafiato sulla costa. I preziosi decori liberty, con motivi floreali e grigi disegnati sulla facciata, erano spesso oggetto di fotografie. E solo ai più fortunati e agli amici era consentito vedere gli affreschi delicati che ornavano le pareti e le volte delle stanze.

Marco annuì senza troppa convinzione ma, proprio mentre faceva di sì con la testa, lei si guardò intorno e lo baciò sulla guancia, prima di voltarsi e tornare a passo svelto verso le sue amiche. Che non si erano perse un secondo dello spettacolo. «Arrivò Casanova» fu il bentornato della cugina San- dra, che aveva già smontato l’ombrellone e preparato la borsa degli asciugamani da portare fino alla Simca blu posteggiata in strada. «Lasciala stare, Marcù, tua cugina Sandra è invidiosa perché se ti fai zito, lei resta l’unica schetta della famiglia» disse con tono acido Annamaria, attirandosi l’immediato lancio di uno zoccolo da parte della sorella, scansato per pochi centimetri. In macchina, al vento del finestrino, che a malapena mitigava un po’ l’infernale temperatura dell’abitacolo dell’auto lasciata al sole per sei ore, Marco sorrise al pensiero di quel gesto fulmineo, a quel bacio che rappresentava un’assoluta eccezione a Licata, nell’estate del 1972, l’estate dei suoi diciotto anni.

E decise che quella novità gli piaceva. E tanto. Lo aspettava adesso un pomeriggio da trascorrere insieme a zio Salvatore, notaio e vicepresidente della locale banca Cassa di San Calogero. Basso, grassoccio e con le sopracciglia perennemente aggrottate a cercare di comunicare severità e rigore, fin dall’infanzia aveva mostrato per lui una particolare predilezione. In fuga costante dall’isteria ansiogena di sua moglie Marta, sorella maggiore della madre di Marco, passava i pochi giorni di vacanza nello studio dove coltivava i suoi hobby, come la soluzione di tutti gli enigmi e gli schemi di parole crociate della «Settimana Enigmistica», il ritaglio di tutte le vignette della stessa rivista e il loro incollaggio in grandi libroni rilegati, l’una attaccata accanto all’altra, in un puzzle dove non doveva restare nemmeno uno spazio vuoto nell’intera gigantesca pagina. Oppure si rifugiava nella terrazza del piano superiore. Qui viveva le sue ore di relax, a potare, invasare, sistema- re, concimare e irrigare la sua collezione di rose di ogni colore. Cento e più vasi di ogni tipo, piccoli o grandi, in terracotta o ceramica, ma anche vecchie pentole, teiere in disuso, mastelli, bacinelle e qualunque oggetto di forma concava in grado di reggere il peso di una pianta.

Marco aprì la porticina di ferro che portava in questo regno privato, dove la componente vegetale aveva ormai preso il sopravvento su ringhiere, muri e pavimento, e si riparò con la mano dal sole accecante delle tre del pomeriggio. Cercò con gli occhi lo zio, che, seduto su uno sgabello, stava riversando su un foglio di giornale la terra contenuta in un vecchio vaso. Il notaio si voltò, temendo una delle rare incursioni della moglie nel suo privatissimo spazio, ma si rasserenò vedendo che si trattava del nipote. «Ah, Marcù, si tu... mi ero spaventato. Tua zia mi insegue da stamattina per smontare la tenda della nostra stanza. Rumpimentu di guallera che è quella fimmina!» «Zio, ma non muori di caldo?» «In effetti sì, ma devo finire questo travaso, la rosa inglese è delicatissima e stava soffrendo in questo vaset- to nicu nicu! Cammina qui e aiutami che poi andiamo a prendere il caffè al bar» disse strizzandogli l’occhio.

Marco prese il nuovo vaso, un vecchio pentolone in alluminio con dei buchi alla base fatti con i chiodi, e lo riempì con la terra rimasta sul giornale. Alzò lo sguardo e vide suo zio che teneva in mano la pianta con una delicatezza confrontabile solo con quella di una madre che fa il primo bagnetto al suo neonato. Il trapianto fu rapido e lo zio stesso volle mettere le ultime manciate di terra a coprire le radici. Appena finì l’operazione guardò il nipote con uno sguardo preoccupato. «Non so se ce la farà. La sto invasando d’estate. Può darsi che non sopravviva.» Marco non riuscì a trattenere una risata. «E niente! Io speravo che almeno tu mi capivi e invece sei un turduni come le tue cugine! Avanti, scendiamo sen- za farci sentire e andiamo al bar» disse portando l’indice davanti al naso, a indicare silenzio e discrezione. Scesero le due rampe di scale che dalla terrazza conducevano all’oscuro vano d’ingresso e lo zio, con grande cautela, aprì il portone di legno che dava sulla minuscola via sottotenente Cellura. Si allontanarono investiti dall’odore di vino della vicina osteria, abbassandosi a tratti per evitare di strappare i lenzuoli stesi dai balconi delle case che si affacciavano sulla strada e che, per qualche secondo, li circondarono con il loro profumo di sapone di Marsiglia.

Fecero la breve discesa che li avrebbe portati all’incrocio con un ancora semideserto corso Vittorio Emanuele e si avviarono verso il bar di piazza Elena, all’ombra dei palazzi storici del paese, che un tempo avevano ospitato i nobili e i potenti. «E che succede da don Peppino?» disse lo zio indicando con il mento un gruppo di persone che discuteva davanti l’ingresso della bottega del barbiere. «Vossìa benedica, nutaru, la sintìu la notizia?» esclamò qualcuno alle loro spalle. I due si voltarono e un uomo con un grande naso aquilino e dalla folta chioma bruna si chinò e si levò il cappello. «Dottor Ciotta, che è successo? Che notizia dovrei sapere?» chiese lo zio ricambiando il saluto dell’uomo. «All’ora di pranzo hanno trovato Totò Frangipane ammazzato. Lo conosceva, vero?»

Lo zio si fermò e si guardò intorno. «Ammazzato? E da chi?» Il medico alzò le spalle e allargò le braccia.«Nutà, sto andando dal maresciallo perché vuole che do un’occhiata al cadavere. Io so solo che un carabiniere è passato mezz’ora fa dal mio studio e ora vogliono portarmi, come dicono nei romanzi gialli, sul luogo del delitto, in contrada Ficuzza, ce l’ha presente?» Appena i tre arrivarono all’altezza del negozio del barbiere tutti smisero di parlare. «Ecco, a loro dovete chiederlo, loro che sono persone importanti... noi possiamo solo dire bestialità» disse a voce alta don Peppino, indicando lo zio e il medico. «Dutturi, nutaru... che sappiamo di questa ammazzatina?» domandò un uomo magrissimo e con due baffi enormi. «E che sappiamo? Niente sappiamo» rispose il medi- co, accelerando il passo verso la non lontana caserma dei carabinieri.

«Don Cola dice che Frangipane ha la testa spaccata e che lo ha ammazzato Tano Giglio, il suo limitante» continuò l’uomo, ignorando il gesto di fastidio del medico. «Ah, è così? Qua siete meglio di Joe Petrosino. Tutto voi sapete!» disse con malagrazia, tirando verso di sé il notaio, che a sua volta aveva afferrato la mano di Marco per tirarlo lontano da quel gruppo. «Su questa storia ci ricameranno almeno due mesi. Vedrà che alla fine mezza Licata accuserà l’altra metà di essere l’assassino. Speriamo che sia vero che l’hanno trovato.» «Chi?» chiese il notaio. «Come chi? Non l’ha sentito? Tano Giglio. Lo sapevano tutti che odiava Frangipane da quando aveva fatto mettere il filo spinato al confine tra i loro terreni. Non sopportava più le capre e le pecore che entravano nel suo terreno.» Marco guardò suo zio e notò che le sopracciglia stavano raggiungendo abissali profondità espressive dove il nipote riconobbe una miscela di rabbia e incredulità. «Ho seguito io questa storia dei confini» disse in tono glaciale.

«A maggior ragione deve venire con me dal maresciallo Iacono. Anzi, di sicuro avrà mandato un carabiniere anche da lei!» Marco scrutò in silenzio i volti dei due, cercando di capire cosa stesse accadendo. Continuarono a parlare tra loro a bassa voce, cam- minando al centro del corso, sotto gli sguardi di donne vestite di nero affacciate ai balconi di vecchie case con le persiane chiuse per impedire che il sole entrasse nelle loro abitazioni, portando caldo e mosche. Nei pressi del porto, i tre si infilarono in una serie di viuzze e in breve si ritrovarono davanti l’inferriata della caserma dei carabinieri. Dove c’erano già capannelli di curiosi che parlavano con toni alterati, tenuti lontani dall’ingresso da due giovani militari che adesso stavano cercando di dissuadere alcuni uomini dall’entrare in caserma. «Appuntato, dica al maresciallo Iacono che sono arrivati il medico e il notaio!» s’annunciò con tono deciso il dottor Ciotta, facendosi largo nella folla di curiosi. L’appuntato fece un cenno al suo collega e insieme agevolarono l’ingresso del terzetto in caserma.

Appena entrati, un odore di sudore, di chiuso e di cibo li avvolse. «Incardona, u chiamasti u capitanu?» la voce del mare- sciallo, che pensava che a entrare fosse stato l’appuntato, si fece sentire, con un accento della Sicilia orientale che Marco conosceva bene. «Maresciallo, sono Ciotta, posso?» «Dottore, si accomodi, si accomodi» un rumore di sedie strascicate e di frettolosi tentativi di spostare qualcosa si percepì dal buio androne della caserma. Marco restò indietro e aspettò che suo zio gli facesse segno di entrare con lui. «Meno male che è arrivato, dottore, tra poco arriva il medico legale da Agrigento, ma volevo che anche lei vedesse il cadav...» Il maresciallo Iacono, corpulento e con baffetti ben curati, aveva una vaga somiglianza con un vecchio attore che Marco aveva visto in qualche film in televisione, e gli sembrò di ricordare che si chiamasse Amedeo Nazzari. «Notaio, ma che porta u carusu in caserma, giusto ora?»

«Maresciallo, io ero uscito per andare al bar, poi il dot- tore mi ha dato questa notizia... comunque Marco non è più tanto carusu...» disse accarezzando la testa del nipote. Il militare allargò le braccia e fece cenno ai tre di sedersi. I resti di un involto con un pezzo di pane con la mortadella giacevano, nascosti da una carpetta, alla destra dell’uomo. «Marescià, forse l’abbiamo disturbata...» disse lo zio indicando il panino. L’uomo arrossì e si schernì con larghi gesti delle braccia. «Lassassi perdiri, nutaru, oggi non è giornata... invece parliamo di questa storia.» «Mi ha fatto chiamare per vedere il corpo?» «Sì e no, dottore, in verità l’ho fatta chiamare anche perché l’uomo che abbiamo arrestato come sospetto as- sassino si sente male... dice che soffre di pressione alta. Poi, se ha tempo, però qualche domanda gliela volevo fare anche sul cadav... ehm... sul corpo della vittima.»

«Ah» disse Ciotta «e vediamo questo arrestato, allora.» «Aspetti, prima di vederlo volevo che sapesse perché lo abbiamo arrestato.» «Marescià, tutto il paese sa delle liti continue per il confine tra Frangipane e Giglio.» «Lo so, lo so. La gente parla troppo... comunque lo abbiamo fermato perché Giglio aveva minacciato Frangipane apertamente. E l’ultima volta poco tempo fa.» «Quanto tempo fa, maresciallo?» chiese il notaio. L’uomo alzò le spalle. «Mi hanno riferito che la settimana scorsa lo ha ripetuto al bar di via Roma. Aveva bevuto troppo e, al suo solito, si era fatto prendere dal nervoso. Non si dimentichi che Giglio ha precedenti per rissa e violenza.» I due restarono in silenzio. Marco già da un po’ guar- dava a bocca aperta i tre uomini e quasi d’istinto, mentre il maresciallo stava per alzarsi per accompagnare il medico nella stanza dove era recluso Giglio, disse ad alta voce: «Ma qualcuno l’ha visto ammazzare Frangipane?».

Il maresciallo restò bloccato con le mani poggiate sui braccioli della sedia e guardò prima Marco e poi i due uomini di fronte a lui. «Eh, maresciallo, mio nipote è appassionato di gialli! Tra poco le chiederà se ha trovato l’arma del delitto!» scherzò lo zio. «Magari l’avesse visto qualcuno! Sarebbe stato tutto più semplice, ora invece mi toccherà cercare prove e perdere tempo» si lamentò sorridendo il maresciallo. «E comunque l’arma del delitto l’abbiamo trovata, caro notaio. Una vanga nuova di zecca. Stava in fondo a una scarpatella poco lontano da dove abbiamo trovato il morto. Adesso venga con me, dottore, prima che arrivi tutto il circo della Scientifica e dei magistrati di Agrigento... notaio, se vuole si accomodi, una mano da un uomo di legge come lei è sempre benedetta.» Marco guardò lo zio che gli fece cenno con la mano di aspettarlo in quella stanza. «Solo pochi minuti e poi torniamo a casa» disse mentre si alzava per raggiungere in fretta il medico e il maresciallo che già si erano avviati nel corridoio che portava alla cella di sicurezza. Marco si guardò intorno perplesso, e attese che i tre uomini entrassero nella cella prima di alzarsi e andare in corridoio, dove avrebbe forse potuto ascoltare la discussione con il sospetto assassino.

Dal corridoio vide che la porta in fondo dava su una stanza e dall’allontanarsi delle voci capì che la cella di sicurezza era piuttosto distante o addirittura sottoposta rispetto al piano di calpestìo della caserma. Dopo qualche secondo di silenzio senti un tang! metallico e poi una confusione di voci che si sovrapponevano l’una con l’altra. «Dutturi... nutaru... chistu pazzu è... chistu dici ca iu ammazzai a Frangipane. Non fui iu, non fui iu...» L’uomo gridò con una voce impastata di lacrime, a tratti sembrava quella di un ubriaco. Marco ebbe un brivido. Alle urla del maresciallo e di un altro carabiniere che stava nella stanza antistante la cella seguirono poi alcuni di minuti di silenzio, dovuti alla visita che il medico aveva cominciato.Marco si avvicinò fino a vedere l’interno della stanza che faceva da anticamera alla cella. Era piuttosto spoglia, con un tavolo quadrato al centro e tre schedari vecchissimi, dei quali uno era piegato di lato sotto il peso del suo contenuto. Sul tavolo stava appoggiata, con la concavità verso il basso, una vanga con un manico di ferro colorato di verde scuro, nuovissima eccetto che per delle macchie di sangue che si allargavano dal taglio di entrambi i lati dell’attrezzo. Un rivolo di sangue rappreso colorava la scanalatura lasciata dai due lembi metallici che avvolgevano la parte superiore del manico e si allargava fino all’impugnatura di forma triangolare.

«Dutturi... lei mi canusci... iu parru, parru assai, ma sugnu bravu cristianu!» riprese a gridare Giglio. «Sì, ma ora mutu e se è vero quello che dici vedrai che tutto si risolve presto presto» disse con voce conciliante il medico. «Nutaru, ce lo dica lei al maresciallo che io sono un bravo cristianu... se lo ricorda quando l’ho portata a cacciare al vadduni della cava?» «Il problema è che hai parlato assai, Giglio. Io lo dico per te. Se hai fatto qualcosa, dillo subito, che queste cose poi il magistrato le valuta e al processo se ne tiene conto» disse con voce seria lo zio. «Iu... iu... e che devo confessare? Chiddu ca non fici?» urlò l’uomo. Marco sentì drizzarsi tutti i peli delle braccia. «Avanti, ora basta. Sei sano come un pesce, Giglio. Ora aspettiamo il capitano e poi vediamo che decidono» disse con tono deciso il maresciallo. Appena sentì di nuovo il tang! della porta, Marco scappò verso la stanza del maresciallo e, quando i passi dei tre uomini si avvicinarono, era di nuovo seduto dietro il tavolo.

Quando rientrarono, Marco notò che suo zio era scon- volto. I pochi capelli arrangiati in un riporto erano disor- dinati ed era tutto rosso in viso. «Che brutta storia! Da un lato mi fa pena. Lo conosco da quando era ragazzo e conosco pure tutta la sua famiglia. Brava gente, lavoratori. Non me lo spiego come si possa arrivare a tanto» disse il dottor Ciotta mentre sistemava lo stetoscopio nella sua borsa di pelle. «Lo abbiamo trovato che era seduto a tavola a mangiare con suo padre. Era incredibile, sembrava che cascasse dalle nuvole, ve lo giuro... che non sapesse niente!» «Maresciallo... lo dico solo per fare l’avvocato del diavolo, ma non avete pensato a nessun altro?» «Notaio, a chi dovevamo pensare? Il corpo era vicino al confine tra i due terreni, la vanga col sangue era in un vadduni lì vicino, qualche giorno prima aveva detto pubblicamente che l’avrebbe ammazzato e quello stesso giorno ha comprato la vanga al consorzio agrario. Ah, e la figlia di Frangipane ci ha detto che aveva appuntamento con Giglio al confine per discutere ancora su questa cosa del filo spinato.»

Il notaio assentì. «In effetti...» «Be’, maresciallo, allora andiamo a vedere il cad... sì, insomma, la vittima?» chiese il dottore guardando di sfuggita Marco. «Ormai devo aspettare tutta la gente che sta arrivando da Agrigento, dottore, ci andiamo con loro, se non le dispiace.» L’uomo allargò le braccia e si sedette sulla sedia di legno di fronte alla scrivania del militare. «Allora noi, se non vi dispiace... ce ne andiamo» disse il notaio. «Come volete. La ringrazio per la presenza. So che posso contare sulla sua discrezione.» «Maresciallo, ci mancherebbe, resto a disposizione per tutto quello che è in mio potere.» I due si scambiarono una vigorosa stretta di mano e, dopo un saluto al dottore, Marco e suo zio si allontanarono verso l’uscita della caserma. Fuori dall’edificio la folla era aumentata e tutti si volta- rono verso i due, mentre i carabinieri di guardia all’ingresso aprivano il cancello per farli passare. Marco notò un uomo che fissava il vuoto davanti a sé, seduto su un muretto poco lontano dal cancello. Intorno a lui non c’era nessuno. Una sorta di semicerchio che definiva una zona di rispetto.

«È il padre di Tano Giglio» disse zio Salvatore, che aveva notato lo sguardo del nipote. Anziano, con una coppola grigia vecchia e strappata, indossava una camicia bianca e un gilet liso su pantaloni scoloriti che un tempo dovevano essere stati marroni. Stava con le mani sulle gambe e la bocca semiaperta, in silenzio. Si voltò per un attimo e Marco incrociò il suo sguardo assente, vacuo. Alcuni uomini cercarono di fermarli per saperne di più sulla notizia del giorno, che sarebbe diventata la notizia del mese e forse anche dell’anno. Ma entrambi restaro- no in silenzio, scuotendo la testa a chiunque cercasse di imbastire una discussione. La folla cominciò a stringersi intorno, finché il notaio afferrò in modo deciso la mano del nipote e cominciò a camminare con passo veloce, allontanandolo da quel gruppo di curiosi. In breve, si ritrovarono in corso Vittorio Emanuele, ancora semivuoto per il caldo e per il protrarsi del riposo pomeridiano dietro le persiane accostate delle case che si affacciavano sulla strada.

Solo qualche anziana, con movi- menti lenti e faticosi, ogni tanto si trascinava sui balconi arrugginiti per stendere camicie e tute da meccanico al sole del pomeriggio estivo che cominciava a scendere dietro il paese, illuminandolo di luce rossastra e allungando le ombre dei tetti sui marciapiedi. Marco osservava suo zio che camminava qualche metro davanti a lui, con le braccia dietro la schiena e lo sguardo fisso sulla strada, perso in qualche ragionamento.

Lui, invece, ripensava a quel vecchio davanti alla ca- serma, allo sguardo di chi ha subìto tutta la vita e adesso si sarebbe adeguato a subire la perdita, forse per sempre, di suo figlio.

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