
C'è la sua Bisceglie, ma ci sono anche Bruzzano Zeffirio, Palma di Montechiaro, Matera, Napoli, Gerace, Galatone, Albano di Lucania, Eboli, Capo Rizzuto, Palermo, Nola, Capri, Potenza, Barletta, Crotone, Castelmezzano... C'era una volta il Sud (Rizzoli, pagg. 254, euro 28) è la «dichiarazione d'amore» di Marcello Veneziani alla sua terra e, insieme, a un mondo che non c'è più, rievocato attraverso le parole e attraverso decine di immagini meravigliose, in bianco e nero. Sono «Racconti e ricordi illustrati del Meridione di un tempo».
Marcello Veneziani, C'era una volta il Sud perché non c'è più?
«È così. Il Sud che racconto non c'è più. Oggi l'impressione è che stia diventando una periferia del mondo globale: non ci sono più quelle differenze che lo rendevano una realtà sentimentalmente e culturalmente diversa. Si sta adeguando a questa società apolide, sradicata e distaccata dalla tradizione».
Tradizione è una delle parole chiave di questo suo Sud?
«Sì. Però non è una tradizione associata all'idea di rimpianto o di tornare indietro... La mia è una elegia, un po' come l'Elegia americana di J.D. Vance: ecco, questa è una elegia nostrana, il ricordo di un passato che sta scomparendo e la cui dolcezza non può comunque farci negare che ci fossero asprezze e difficoltà. Ma l'arte di ricordare è questo: far rivivere quel mondo passato e la sua tenerezza».
Che mondo è?
«Un mondo in cui il luogo conta più del tempo e l'appartenenza è più importante dell'adeguarsi a un'epoca. Un mondo legato a delle consuetudini che costituiscono l'intero orizzonte, morale e civile, dell'esistenza».
Oggi c'è qualcosa di simile?
«L'idea di provincia, che è universale, ed è associata ad altri ritmi e modi di vedere la vita, non all'insegna della velocità e della subordinazione alla tecnica; una vita che ha una dimensione comunitaria in cui i rapporti umani sono centrali e caratterizzati da una consonanza di vita affettiva».
Comunità, famiglia, tradizione, religione: parole che ritornano di questi tempi. Sono cose che mancano a molti nell'Italia di oggi?
«Sì, perché appartengono al nostro repertorio di sentimenti e istinti, ereditati nell'infanzia e nella memoria. Ritornano, ma dobbiamo ripeterlo: molto di quel mondo è improponibile. Eppure, l'impossibilità di attualizzarlo non significa doverlo cancellare. Per me, la possibilità di abitare più mondi è una ricchezza. E questo rapporto con il Sud di una volta ci fa capire che, oltre al presente, esistono anche il passato, il futuro, il favoloso e l'eterno... È un viaggio, anzi uno struscio nei secoli».
Perché le foto sono tutte in bianco e nero?
«Per rimarcare la distanza mitica di quel tempo rispetto alla realtà. Il bello è proprio questo, che ci mostrino un mondo diverso: senza cellulari, di persone che vivono con poco, quella che chiamo la vita gratis, al cospetto degli elementi naturali. Una vita semplice, anche se niente affatto facile».
Gli autori che raccontano questo Sud, in realtà, non sono solo del Sud.
«Gli autori del '900 che hanno cantato questo passaggio, come Sciascia, Corrado Alvaro, Rocco Scotellaro, sono in consonanza con autori di altri mondi, come Pavese, che è piemontese, ma racconta la stessa nostalgia di quell'epoca; o Borges, per cui la nostalgia è un processo poetico di cui abbiamo bisogno; o Nietzsche, che a Napoli all'inizio è infastidito, e poi si innamora, attratto dal miscuglio fra sacro e profano, le processioni dei funerali e quelle carnevalesche. Un altro autore del Nord che racconta quel mondo perduto è Pasolini. E non sono autori reazionari».
Che cosa li accomuna?
«Il gusto della nostalgia. Un gusto non politico, bensì sentimentale: è la nostalgia di una umanità fatta di brutalità ma anche di magia, quella scandagliata dall'antropologo Ernesto De Martino, che incrocia malocchio e fede, la religione e la magia delle masciare».
La contrapposizione Nord-Sud esiste ancora?
«Si è molto attenuata. Il progresso è avvenuto a chiazze, al Sud come al Nord. Oggi la dicotomia è quella fra città e provincia, fra metropoli e paesi».
Esiste una mitologia del Sud?
«Sì, c'è ancora e credo sia l'unica lettura praticabile per ritrovare il fascino che esercita. Il Sud, dannato nella sua storia, si salva come mito. È quello al centro di molta cinematografia».
C'è anche una retorica del Sud?
«Indubbiamente. Un conto è ricordare, un altro è cancellare le contraddizioni, che sono esistite e vanno affrontate. La cancel culture è la tendenza a cancellare le contraddizioni del passato; ma per me la sua ricchezza e il suo fascino sono proprio nel suo essere una realtà diversa dalla nostra».
E le cozze come metafora del Sud?
«Io racconto questa teoria, per cui le cozze facciano male a chi è diffidente... Chi ha la consuetudine a mangiare la cozza cruda non ha problemi; chi è sospettoso, patisce. E poi c'è il fatto che alcuni frutti di mare, come la cozza, siano migliori quando il mare è inquinato: perciò, alla Baudelaire, sono i fiori del male del mare... Amiamo la cozza perché è un po' maudit».
Oggi il Sud è globale?
«Esiste il Sud del mondo. Ma esiste anche il Sud come categoria dello spirito: basti pensare alla Provenza o al pensiero meridiano, che nasce dalla luce del Sud, di cui parlava Camus. È una passione che diventa un pensiero, che potremmo anche chiamare mediterraneo».
Abbiamo bisogno di questo Sud oggi?
«Sì, ne abbiamo bisogno dal punto di vista dei rapporti umani e con la natura. E poi abbiamo bisogno di ricordarlo: non per tornare indietro, ma perché l'esperienza del ricordo è nobile».
In esergo cita Bufalino: «Il passato è la mia patria». Quante parole tabù...
«Non a caso. La patria è relegata nel passato e lui ne trae le conseguenze: se devo sentire una identità originaria, la cerco nel passato, il mio luogo elettivo. Non è un reazionario o un passatista: riconosce che la sua identità si declini con ciò che la sua memoria riesce a rendere vivo».
Lei si sente un po' così?
«Un po' sì. Certo non vivo solo nel passato, ma Malaparte diceva: c'è un bambino morto in noi. Il Sud è quello. E ravvivarlo ogni tanto è un esercizio prezioso, sentimentale e letterario».