Letteratura

Né Asia né Europa: la grande Russia è eccezione apocalittica

Dopo il crollo dell'Unione sovietica, riemerge lo spirito orientale dello sterminato territorio dominato da Mosca. Ma forse è solo un sogno

Né Asia né Europa: la grande Russia è eccezione apocalittica

Morto due anni fa, appena sessantenne, Vasilij Golovanov appartiene a quella generazione di scrittori russi la cui adolescenza avvenne all'ombra del regime gerontocratico di Breznev e la cui maturità concise con la illusoria perestroika di Gorbaciov e l'implosione del comunismo stesso. Questa particolare condizione anagrafico-esistenziale spiega molto delle sue scelte narrative, culminate agli inizi degli anni Duemila in un libro, reso poi celebre dalla sua traduzione in francese, ovvero Eloge des voyages insensés, ou L'Ile, di cui questo Verso le rovine di Cerengur ora uscito in italiano (Adelphi, traduzione di Valentina Parisi, 376 pagine, 28 euro) ne è per certi versi l'ideale proseguimento. In sostanza, Golovanov, che iniziò la sua carriera come reporter e fotografo, si trovò costretto a reinventarsi una geografia nazionale e sentimentale che in qualche modo lo mettesse al riparo da quello che era stato il fallimento finale, senza scampo e senza sconti, di un'ideologia che aveva marchiato a sangue il suo Paese, senza per questo cedere alle lusinghe di quel neoliberismo e/o capitalismo d'accatto che stava facendo della Mosca di fine secolo una versione riveduta e corretta della Chicago gangsteristica degli anni Venti. Se a ciò si aggiunge la difficoltà, propria a una generazione figlia di chi del regime stalinista era stato, volente o nolente, artefice, a rifarsi a quell'eredità ideologico-culturale zarista spazzata via dalla Rivoluzione d'Ottobre, si vedrà come per Golovanov l'approdo finale sia una sorta di Eurasia, meglio di Asia interiore, «intesa come spazio della creazione artistica, dell'impresa eroica o di un'esperienza spirituale assolutamente particolare. Il mal d'Asia' che si era già impadronito di Chlebnikov» e che «più tardi perseguiterà anche Platonov». Già questi due nomi, poco noti in Italia e a lungo rimossi se non pesantemente censurati in patria, danno un'idea delle coordinate interiori di Golovanov. Il primo rimanda a un poeta e a un mistico che fu anche naturalista e glottologo, un poeta-pagano, se si vuole, o un poeta derviscio, nonché un profeta, il che, scrive Golovanov, gli valse «una sempre più profonda incomprensione, nonché vituperi, umiliazioni, fame, oblio e, infine, una morte prematura». Quanto al secondo, il cui romanzo più importante, Cevengur, scritto nel 1928, avrà piena luce in patria solo sessant'anni dopo (da noi è stato tradotto integralmente da Einaudi nel 2015), basterà dire che è «la versione apocrifa di una sonnolenta rivoluzione delle steppe ignare della teoria bolscevica», un romanzo dove, a detta del suo stesso autore, il tema di fondo «è il motivo dell'apocalisse, della fine del mondo, della rivoluzione come assassinio del mondo del rivoluzionario che ribellandosi a Dio uccide' l'universo ed evoca la sua fine». A completare il quadro va aggiunto che Chlebnikov fu all'inizio un compagno di strada di Majakovskij, con cui poi romperà, mentre Platonov nasce come ingegnere agronomo, uomo d'azione che vorrebbe combattere siccità e carestie e che all'improvviso si rende conto che, nell'ottica del comunismo, quella contadina era solo una classe superflua, che non meritava nemmeno di essere salvata: «I bolscevichi hanno avvelenato col dubbio il cuore degli uomini Volevano sostituire al cuore la testa, ma alla testa interessa sapere che il mondo è colmo di etere, mentre per il cuore quest'universo di etere sarà vuoto e senza speranza - sino al suicidio». C'è però ancora un terzo nome a spiegare l'orizzonte mentale e narrativo di Golovanov, ed è quello di Bakunin, il rivoluzionario e anarchico Bakunin, l'esule in fuga e l'uomo delle mille barricate insurrezionali dell'Europa ottocentesca, il prigioniero dello Zar che fugge dalla Siberia dove era stato mandato a morire, l'ispiratore dello Stavrogin di I demòni di Dostoevskij e il gigante stanco di Il diavolo al Pontelungo di Bacchelli, il distruttore per eccellenza. Figura mitica quanto contraddittoria del pantheon marxista-leninista, di Bakunin Golovanov dà un'interpretazione in linea con quello che è un suo generico messianismo anarchico: «Se è necessario nuotare tra i flutti della rivoluzione, allora è meglio farlo nella corrente anarchica. Perché è condannata già in partenza. E solo una rivoluzione sconfitta contiene in sé i germi per un'evoluzione della società. D'altronde, tutto questo è una vicenda ormai conclusa: il mondo, nel frattempo, è entrato in un'altra fase, alla lotta di classe sono subentrate le proteste dei no-global, l'attivismo ecologista, l'opposizione alle tecnologie sociali e dell'informazione. E non è da escludersi che in quest'ambito gli anarchici possano ancora dire la loro. Alla fine qualcuno dovrà pur denunciare che ci stanno istupidendo e derubando, che ci stanno privando di un ambiente normale in cui vivere, cercando a tutti i costi di imporci il ruolo di consumatori felici del mercato globale».In quest'ottica, Verso le rovine di Cevengur è una fuga continua verso luoghi dove «a cospetto di una natura incontaminata, è lecito essere pervasi da un sentimento di eternità». Che si tratti dello sterminato Volga o del suo delta nel mar Caspio, delle steppe dove la Russia europea si smarrisce nei meandri dell'Asia centrale, Golovanov è uno scrittore in fuga dal suo tempo e in cerca di spazi geografici che siano anche luoghi metafisici. E la sua via di salvezza è a Oriente: «L'Asia è uno spazio spalancato in tutte le direzioni, è un tempo senza sigilli che, all'apparenza, non è stato dissigillato, perché non ha mai conosciuto la Storia e si è conservato intatto dalla creazione del mondo, come una sorta di soggetto potenziale per lo sviluppo storico. In Europa, invece, spazio e tempo sono bloccati, come se un artista li avesse fissati più volte e ora fossero talmente impregnati delle sostanze indispensabili al proprio fissaggio da provocare una sensazione di soffocamento, quasi mancasse l'aria». In realtà, e per quanto riguarda il suo Paese, le cose non stanno esattamente così, e Golovanov è scrittore troppo avvertito per non rendersene conto. Più che non aver mai conosciuto la Storia, in Russia «il tempo della Storia è indiscutibilmente catastrofico e tende a cancellare dalla faccia della terra (nel vero senso del termine) ogni progetto storico restituendolo al tempo e all'argilla I cataclismi della Storia sono per l'appunto gli strappi causati da quelle rivolte che Puskin definiva insensate e crudeli; precipitare nell'eternità, tornare al nulla. Tutto o nulla - ecco la visione del mondo russo, ecco la mentalità postrivoluzionaria Il labirinto di specchi della cultura europea ci affascina perché, circondati dai nostri mattoni refrattari, ci annoiamo. Ci annoiamo a morte! Per questo siamo sempre pronti alla rottura, per questo provochiamo sventure e catastrofi, infliggendo strappi al tempo della Storia. Noi esigiamo una vita ai limiti del tempo, tra essere e non essere. Da qui le sette apocalittiche, le rivoluzioni, Razin e Pugacev inclusi tra i cittadini benemeriti, l'avventurismo elevato ad abitudine e l'alcolismo come scelta esistenziale estrema». Per inciso, la parte finale di Verso le rovine di Cevengur, ovvero il diario francese che porta come titolo Resistere non è inutile, risulta a questo proposito posticcio, pur se ben orchestrato da Golovanov con la sua consueta bravura di scrittore (resa benissimo in tutto il libro dalla traduzione di Valentina Parisi). Resoconto del suo viaggio in Francia in occasione dell'uscita di Eloge des voayges insensés è in fondo un cercare di riconnettersi a una idea salvifica quanto consolatoria della letteratura tipica però di un Occidente ipernutrito dove in fondo lo scrittore non rischia nulla, se non una marginalità subita o rivendicata che sia. È un riconnettersi che paga il pegno a una lingua di plastica propria del politicamente corretto, come viene fuori dal sirparietto in cui la sua traduttrice francese gli spiega indignata le politiche verso i minori dell'allora governo Sarkozy: «Un bambino in età prescolare, può essere dichiarato pericoloso, perché in futuro potrebbe evidenziare comportamenti sociali o criminali: è la prima volta che succede».

«Ma questo è fascismo» replica compunto Golovanov e a entrambi andrebbe ricordato che la maggiore età al compimento dei 12 anni fu il modo staliniano per liberarsi dell'infanzia «pericolosa», i cosiddetti besprizornye, i bambini perduti nella Russia della rivoluzione Resistere non è inutile, a patto di non truccare le carte.

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