Controcultura

La sconfitta a Cuba che umiliò Kennedy

Bruno Vespa pubblica una biografia di Jfk. I primi cento giorni da presidente? Un disastro

La sconfitta a Cuba che umiliò Kennedy

Per gentile concessione dell'editore e dell'autore, pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Bruno Vespa, Kennedy. Fu vera gloria? Amori e potere di un mito (Railibri, in uscita il 2 maggio). Vespa racconta Kennedy fuori dal mito, mettendo al centro anche l'uomo oltre al politico.

Castro ormai rappresentava la testa di ponte dell'Unione Sovietica nel continente americano. La Cia premeva perché esuli cubani addestrati in Guatemala invadessero l'isola, ed ebbe il via libera per i preparativi. In un rapporto del Dipartimento di Stato è scritto che per quanto l'intervento potesse essere ben camuffato, sarebbe stato comunque addebitato agli Stati Uniti, con il risultato di provocare proteste in tutto il mondo, vanificando l'enorme favore con cui era stato accolto l'arrivo del giovane Presidente alla Casa Bianca. Kennedy era indeciso. Da un lato patrocinare l'invasione in quello che pur sempre era uno Stato sovrano smentiva tutta la sua politica liberal. Dall'altro lato era tentato di rovesciare un regime che aveva promesso libertà e si era rivelato una dittatura. Il Presidente chiese alla Cia di programmare un piccolo sbarco di uomini che avrebbero dovuto avviare la guerriglia in montagna e acquisire poi consensi per simulare una rivolta popolare. Apparve tuttavia evidente che nessun movimento avrebbe potuto apparire estraneo agli americani. Il fallimento dell'operazione avrebbe guastato l'immagine degli Stati Uniti e del suo Presidente, ma a Kennedy fu fatto rivelare che smobilitare i guerriglieri anticastristi in addestramento in Guatemala avrebbe avuto comunque conseguenze pesantissime. Quegli uomini sarebbero necessariamente tornati negli Stati Uniti e avrebbero spifferato ai quattro venti che l'azione non era andata in porto per la vigliaccheria degli americani. Schlesinger rinnovò il suo parere contrario all'operazione con un memorandum di dieci pagine. Anche McGeorge Bundy, assistente per la sicurezza nazionale, si disse contrario, ma il Presidente andò avanti. Kennedy decise di autorizzare lo sbarco dopo aver chiarito agli anticastristi che non avrebbero potuto contare sull'aiuto militare americano. Gli anticastristi decisero di procedere ugualmente: la disastrosa organizzazione della Cia e le indecisioni di Kennedy portarono al fallimento dell'operazione. Lo sbarco alla Baia dei Porci, difficile per la presenza della barriera corallina e per l'assenza di vie di fuga, avrebbe dovuto essere assistito dal bombardamento degli aeroporti cubani da parte di sedici aerei anticastristi. All'ultimo momento Kennedy ne dimezzò il numero. Sabato 15 aprile otto aerei decollarono da una base del Nicaragua e riuscirono a distruggere soltanto cinque dei trenta aerei dell'aviazione cubana. Era stata programmata una seconda ondata di bombardamenti, ma sempre nell'ottica di ridimensionare l'appoggio americano, Kennedy volle aspettare che gli invasori consolidassero la loro testa di ponte. Poiché questo non avvenne, l'operazione fu annullata. Fin dall'inizio, scrisse subito lo storico Theodore Draper nel report Five Years of Castro's Cuba (1964) avvenne «uno di quegli eventi rari nella Storia: un fallimento perfetto». L'ambasciatore degli Stati Uniti presso l'Onu, Adlai Stevenson, fu tenuto all'oscuro di tutto e considerò folle aver promosso l'iniziativa a due giorni da una riunione dell'assemblea generale della Nazioni Unite dedicata appunto alla crisi cubana. Il fallimento dell'operazione fu chiaro il 18 aprile: non c'era stata l'attesa rivolta popolare, ventimila militari castristi dotati di carri armati sovietici ebbero facilmente ragione dei 1.400 invasori, mentre Khruschev minacciava l'intervento armato in favore di Castro. Un contingente della Cia, guidato personalmente dal direttore dell'agenzia, Allen Dulles, fu richiamato per il fallimento dell'invasione. 1.113 controrivoluzionari si arresero e furono rilasciati dopo venti mesi di carcere duro dietro un riscatto di alimenti e farmaci del valore di 53 milioni di dollari. Dulles dovette dimettersi. «In una repubblica parlamentare», gli disse Kennedy, «avrei dovuto dimettermi io. In una presidenziale è lei che deve andarsene». Kennedy fu travolto dai sensi di colpa: i rivoltosi morti, i prigionieri trattati con durezza, l'immagine degli Stati Uniti fortemente lesionata. I suoi collaboratori lo vedevano disfatto, sua moglie lo vide piangere. Jack ebbe tuttavia uno scatto di reni che gli consentì di recuperare rapidamente consensi. Telefonò a Nixon e invitò il vecchio Eisenhower per un weekend a Camp David. Entrambi apprezzarono molto. Il primo gli suggerì di intervenire militarmente su Cuba e Kennedy si guardò bene dal farlo (due terzi degli americani erano contrari). Il secondo gli dette una benevola pacca sulla spalla. L'opinione pubblica americana era seriamente preoccupata per il dilagare del pericolo comunista dall'America centrale al Sud-Est asiatico all'Africa. La ritrovata solidarietà nazionale fece risalire i consensi per Kennedy sopra l'80%. Ma vista anche la stagnazione economica, i primi cento giorni di mandato non furono positivi.

Scrisse acidamente Time il 5 maggio 1961: «La settimana scorsa John Kennedy ha concluso i primi cento giorni della sua amministrazione e gli Stati Uniti un mese di rovesci, rari nella storia della repubblica».

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