La Libia è un pantano pieno zeppo di bombe pacifiste

Caro Granzotto, forse mi sono perduto qualche battuta del copione, ma cosa ne è della «primavera libica»? L’orrendo Gheddafi è perito all’interno del suo bunker bombardato dalle forze umanitarie dell’Onu? La piazza ha vinto? E, se sì, con che punteggio?
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Ma in che mani siamo, caro Ballestrieri? Ma cosa è venuto in mente a governanti, ministri degli esteri, consiglieri, prime penne del giornalismo «civile» di buttarsi a corpo morto in una bega tribale, in un regolamento di conti sfociato, come da manuale, in guerra civile? I civili da proteggere! Quali, di quale schieramento? Anche quelli col lanciarazzi ad armacollo? E cosa dire della rodomontata onusiana, obamiana e sarkosiana di voler sistemare il tutto con una «azione cinetica» dal cielo? Ban Ki-Moon, Barack Obama, Nicolas Sarkozy (e Franco Frattini, non scordiamoci di Franco Frattini) sono grandicelli, qualcosa devono pur aver imparato. Possibile che ignorino la regola numero uno delle guerre convenzionali o asimmetriche che siano? E cioè che si vincono a terra - «boots on the ground», si dice nell’inascoltato Pentagono - e, nel caso, vicolo per vicolo o, per dirla stavolta con Gheddafi, «zanga zanga». Ma che niente niente pensavano di far fuori il colonnello e la sua banda da tremila metri di quota? Quello se ne sta quatto chissà dove ridendosela e di quei pasticcioni della Nato e di quell’armata Brancaleone degli insorti («ratti», per Gheddafi). Ridendosela, sopra tutto, per la figura da peracottaro che sta facendo l’occidente virtuoso. Preoccupato per la sorte dei così detti civili libici e indifferente alle centinaia di morti (civili) che miete la mitraglia di quella gattamorta di Bashar al Asad. Continuo a chiedermi se si poteva essere più ingenui (più fessi?) di così, imbarcandosi in una avventura che nei sogni doveva avere le caratteristiche della guerra (umanitaria, ben inteso) lampo e dalla quale ora nessuno sa come uscire. Tre le alternative e una peggio dell’altra: mollare tutto e arrivederci e grazie; insistere con gli inconsistenti raid aerei fino all’esaurimento dell’arsenale missilistico dei «volenterosi»; prendere il toro per le corna e ingaggiare battaglia a terra, nella vana speranza di far finalmente fuori Gheddafi e consegnare la Libia in mano ai «ratti». Tutto ciò incrociando le dita, augurandosi cioè che la Tripolitania non si trasformi in un Vietnam. Cosa assai probabile. E Obama questo, almeno questo, lo sa.
Essendo evidente che non c’era «piazza» (la quale chissà perché avrebbe sempre ragione) a Tripoli o a Bengasi, ma militanti vogliosi di impadronirsi del potere manu militari, il buon senso, la politica, la geopolitica, la storia e l’esperienza avrebbero dovuto consigliare la non ingerenza. E cioè che i contendenti se la vedessero e se la sbrigassero da soli. Invece no. Invece si è voluto abbracciare così, a chius’occhi, la causa degli insorti. Un atto di superbia «umanitaria» e «democratica» che pagheremo caro. Anzi, che stiamo già pagando - gli unici - con l’arrembaggio di decine e decine di migliaia di così detti profughi, in pratica marpioni in barracano. L’unica consolazione, poca cosa ma bisogna accontentarsi, è che in Libia è andato a farsi friggere uno dei più alla moda dogmi dei «sinceri democratici» e dei pacifisti.

Nessuno di loro l’ha infatti menata con la sedicente bacchetta magica del dialogo&confronto. Giù bombe, fra gli applausi di tutti. Il grosso delle quali firmate, e questa è proprio bella, da un Premio Nobel per la Pace fresco di nomina.
Paolo Granzotto

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