Licei occupati, rito inutile di giovani senza fantasia

Licei occupati, rito inutile di giovani senza fantasia

di Carlo Maria Lomartire

Che noia, che barba queste okkupazioni. Eccole anche quest'autunno, puntuali come la caduta delle foglie e l'influenza, le ripetitive, prevedibili, scontate, ovvie assemblee studentesche che decidono, sempre «a larghissima maggioranza» - e come sennò? - di occupare i licei: a Milano il Molinari, il Tenca, il Severi, il Pascal, il Manzoni e altri certamente si aggiungeranno nei prossimi giorni. È un uggioso rituale che si trascina sempre più stancamente fin dagli ultimi anni '80: ricordate il movimento della «pantera»? Il felino era stato visto aggirarsi libero nella campagna romana ma nessuno riusciva a catturarlo. Perciò la protesta studentesca di allora lo adottò come mascotte. I ragazzi avevano cominciato a scimmiottare la «contestazione» dei loro fratelli maggiori del decennio precedente. È da allora che, sempre di più, anno dopo anno si ricava un disarmante senso di ripetitività, di vuoto, di banalità e di mancanza di fantasia e anche di mancanza di motivazioni, almeno apparenti, evidenti. Gravi deficit compensati con la ritualità e la ripetitività: perché così almeno sanno cosa fare anche se non sanno il perché.
Qualcuno conosce, forse, i motivi per i quali sono state decise le occupazioni? Ci dicano, questi ragazzi, cosa bisognerebbe dare loro perché la smettano di sentire musica rap nelle aule, di suonare i bonghi nei corridoi e di allestire grigliate nei cortili, per tornare finalmente a seguire le lezioni e a studiare. Ogni protesta - a prescindere dalle modalità - ha un senso se esprime una domanda: questi cosa chiedono? Cambiare la scuola? Bene, e come? Fino a poco tempo fa almeno avevano la Gelmini contro la quale, sapientemente eterodiretti, potevano scagliare la loro rabbia artificiale. Adesso che la Gelmini e Berlusconi non ci sono più, con chi se la prendono? Chi è ora responsabile del loro presunto disagio e della loro millantata infelicità? Fuori i nomi. E non venite a rispondermi «la società». È inevitabile che mi vengano in mente le occupazioni degli anni '70: ideologiche, velleitarie, pseudo-rivoluzionarie e spesso anche violente - ma allora la polizia picchiava duro, durissmo. Tuttavia quei ragazzi (oggi quasi tutti manager di banche d'affari, direttori di giornali, boss di agenzie pubblicitarie o politici spesso di centrodestra) qualche idea, fasulla ed esagerata l'avevano, un'utopia sebbene confusa e vaga e per fortuna irrealizzabile: volevano, nientedimeno, che «cambiare il sistema». Troppo? Certo, ma in fondo è un'aspirazione a cui i giovani hanno diritto. Direi anzi, che ne hanno il dovere. Ma questi che chiamano a scuola il malumorista Michele Serra a tenere uno spettacolino gratis per poi fare con lui una borghessima foto di gruppo, questi a cosa aspirano? Adesso che non possono nemmeno più chiedere le dimissioni dell'odiata Mariastella, ultima disperata frontiera alla quale fino a poche settimane fa si era attestata la loro protesta.
Perché una cosa bisognerebbe spiegare a questi poveri ragazzi: che una società per mantenersi sana ha bisogno anche di una generazione disposta alla protesta e perfino alla ribellione - ma anche a subirne le conseguenze, repressione compresa - mentre la loro è sempre di più, anno dopo anno, una manifestazione ampiamente tollerata da presidi e genitori, di ottusa ripetitività, di mancanza di fantasia oltre che, in sostanza, di poca intelligenza. Così, crescendo, quando andranno all'università potranno prendere a pomodorate l'Oscar Giannino di turno, come è successo l'altro giorno a Scienze politiche, e dargli del «fascista» semplicemente perché non la pensa come loro (ammesso che in qualche modo la pensino).

Questa generazione sta dando di sé uno spettacolo disarmante non perché protesta ma per il modo in cui lo fa, per il vuoto di idee e progetti che dimostra. Tanto che viene quasi da rimpiangere i loro papà «rivoluzionari» fortunatamente imborghesiti.

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