"L'Iran, la guerra e le donne. La ribellione? Un atto esistenziale"

La scrittrice parla del film tratto da "Leggere Lolita a Teheran", girato da un israeliano

"L'Iran, la guerra e le donne. La ribellione? Un atto esistenziale"

È il 1979 quando Azar Nafisi torna in Iran, piena di speranza, per insegnare Letteratura inglese all'università di Teheran. La rivoluzione di Khomeini spegne presto il suo entusiasmo e la fatica di fare lezione si trasforma nell'impossibilità di condurre una vita normale sotto un regime soffocante e violento, soprattutto nei confronti delle donne. È così che la professoressa decide di invitare alcune studentesse a casa sua, per discutere in libertà dei classici della letteratura, come l'adorato Nabokov, e non solo. Quello che accade in questi incontri a loro modo estremamente sovversivi, Nafisi lo ha raccontato dal suo esilio a Washington (dove vive dal 1997) in Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, 2004): un bestseller mondiale, che ora è diventato anche un film, presentato ieri sera alla Festa del Cinema di Roma e che sarà nelle sale dal 21 novembre. Nel ruolo della scrittrice c'è Golshifteh Farahani. E alla regia c'è Eran Riklis, ovvero un israeliano, che dirige una pellicola ispirata al romanzo di una iraniana fuggita dal regime degli ayatollah...

Azar Nafisi, come mai proprio Riklis?

«Volevo qualcuno che non puntasse al sensazionale, ma riuscisse ad entrare nei cuori e nelle menti di quelle studentesse. Fin dalla sceneggiatura e dalle prime immagini ho capito che ce l'aveva fatta: credo riesca a trasmettere l'angoscia di vivere in un regime totalitarista ma, allo stesso tempo, la resistenza a esso».

Conosceva il regista?

«Avevo già visto il suo film Il giardino di limoni, sulla vicenda di una donna palestinese: ho sentito che era in grado di provare empatia per lei e di mostrare sia come fosse oppressa e le fossero stati tolti i suoi diritti, sia come non si fosse mai arresa e avesse continuato a combattere. Era proprio quello che volevo: quelle ragazze sotto un sistema totalitario sono vittime, provano rabbia e frustrazione e si sentono senza speranza, ma il mio obiettivo era anche mostrare che resistono e che la loro intera esistenza diventa il modo di affrontare questo regime. E poi c'è un altro aspetto».

Quale?

«I governi combattono e fanno le guerre, ma le persone sono collegate attraverso l'immaginazione e le idee, che in questo caso sono descritte attraverso l'amore per i libri e il racconto di come esso diventi pericoloso per una mentalità totalitaria».

Guardando il film sembra incredibile che abbia potuto tenere corsi su Fitzgerald, Henry James, Nabokov e Jane Austen in mezzo alle restrizioni e alla violenza del regime. Come ha fatto?

«Sì, è straordinario come a volte riusciamo a sorprenderci... Quelle ragazze e io eravamo solo persone comuni che cercavano di condurre una vita decente, una vita che ci era stata portata via. Se l'Iran è così importante, è per le sue persone: questo film è per loro e per la loro lotta, che non è politica, bensì esistenziale».

Perché esistenziale?

«Perché ogni giorno, quando vivevo ancora in Iran, mi svegliavo e dovevo indossare il velo obbligatorio, poi mi guardavo allo specchio e non sapevo chi fossi. Non ero io. E questo fa un regime totalitario: prende la tua identità, quello che sei; perciò la battaglia consiste nel recuperare quella identità rubata».

La letteratura che ruolo ha?

«Attraverso la letteratura ci si può collegare al mondo. Dopo la rivoluzione, in molti Paesi non potevamo più viaggiare, le librerie straniere sono state chiuse, i film censurati. Così abbiamo cercato una vita underground, dove poterci comportare come avremmo fatto in una situazione normale. Ed era una delle cose che volevo mostrare nel film: il coraggio di queste giovani, che abbiamo rivisto nelle generazioni successive, quelle scese nelle strade, quelle che hanno silenziato i proiettili cantando e ballando nei luoghi pubblici. La loro è una battaglia straordinaria per vivere».

Che cosa provavate durante quelle lezioni?

«Le amavamo. Ci davano un senso di comunità: le studentesse le frequentavano perché amavano i libri. Erano ragazze molto diverse e spesso in disaccordo fra loro, ma quello che ci univa era che, una volta alla settimana, per due anni, ci ritrovassimo in quegli incontri».

Fino a che, nel 1997, quasi vent'anni dopo essere tornata in Iran, ha lasciato il suo Paese.

«Non avevo scelta. Perciò poi ho scritto Leggere Lolita a Teheran. Quando sono arrivata negli Stati Uniti, mi ha colpito quanto poco gli americani conoscessero gli iraniani: sapevano del regime e credevano che quella fosse la cultura dell'Iran; ma non è così, questo regime non rappresenta l'Iran e gli iraniani, che sono orgogliosi della loro cultura, la filosofia, la poesia, la letteratura... Io volevo mostrare quell'altro Iran, che le persone non vedevano e, anche, come le mie studentesse conoscessero la letteratura americana meglio degli stessi studenti americani. Loro avrebbero rischiato la vita per leggere quei libri».

Il film arriva in un momento di grande tensione nelle relazioni fra Israele e Iran.

«Sì, la situazione è molto pericolosa. Una delle cose che ho discusso col regista era che non volevo fosse un film politico ma un film umanistico. Spero diventi un ponte fra le persone oppresse dai loro leader, perché le persone, che siano israeliane, palestinesi o iraniane, vogliono la stessa cosa: una vita decente».

Che cosa si aspetta?

«Durante le riprese, una delle attrici ha detto: parla di noi. Questo è il messaggio, per me: la libertà e la democrazia non appartengono a una cultura in particolare ma alle persone che combattono per esse. Nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, la ricerca della felicità diventa sinonimo di libertà: questo è bellissimo, ma in Iran non viene messo in pratica. Da anni, gli iraniani combattono e muoiono per le loro convinzioni, e non si arrendono».

La violenza del regime, molto forte anche nel film, fa paura?

«Sì, fa paura e non conosce confini, poiché uccide ovunque. Ma, durante queste ultime proteste, il regime ha usato la violenza perché è debole e spaventato, non perché sia forte. E questo è interessante: gli iraniani, specialmente le donne, hanno scoperto il loro potere; se il nemico uccide, loro vanno in piazza a cantare e a ballare ed è il loro modo di dire al regime che non può vincere. E un'altra cosa interessante è che molti, dentro il regime, stanno cambiando e unendosi all'opposizione. C'è speranza».

Il regime può cadere?

«Credo ci sia la possibilità che le cose cambino.

Per questo il ruolo della comunità internazionale è importante: non perché la Repubblica islamica usa la violenza, dovremmo farlo anche noi; non vogliamo l'invasione dell'Iran, vogliamo che la comunità internazionale dia voce alle persone dell'Iran e sostenga la loro lotta pacifica. Da scrittrice, mi sento totalmente indipendente: non voglio che i miei libri siano politicizzati, voglio che siano una celebrazione dell'umanità».

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