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"L'Italia è il Paese che amo...". Da qui parte il sogno liberale

Nel '94 il discorso della discesa in campo che spiazza tutti. È la rivoluzione che mette insieme l'arcipelago moderato

"L'Italia è il Paese che amo...". Da qui parte il sogno liberale

La telecamera è accesa. Il messaggio dura 9 minuti e 48 secondi. Il volto è rilassato e non c'è traccia di rughe. È seduto davanti alla scrivania del suo ufficio, vestito di blu, giacca di sartoria, il nodo della cravatta è stretto e preciso, sullo sfondo, alle sue spalle, c'è una libreria, si intravedono alcune foto di famiglia. È mercoledì e tutto è stato preparato con cura da una manciata di giorni. Ogni cosa è illuminata. È il 26 gennaio 1994 e pochi credono in questa avventura politica. I suoi futuri avversari sorridono: non può essere una cosa seria, Silvio Berlusconi parla senza alzare la voce, ma con il timbro di chi sta per cambiare il destino di tutti. «L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare».

Cosa cavolo sta succedendo? L'uomo delle tv private e delle coppe dei campioni, il presidente del Milan e l'amico di Craxi, sta sfidando chi è sopravvissuto alla tempesta giudiziaria di Mani Pulite. È ciò che resta del vecchio partito comunista, quella cosa rossa che ha cambiato nome dopo la dissoluzione dell'Unione sovietica, orfani di un'ideologia e in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi, comunque convinti di poter scavallare l'ora più buia e di conquistare senza troppa fatica la stanza dei bottoni. Sono rimasti in piedi grazie al silenzio del «compagno G.» e a un patto di potere con la magistratura, che dopo il fallimento della politica sente il dovere etico di occupare quel vuoto. È la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, l'uomo della svolta, segretario dei Ds. A contrastarlo ci sono i popolari di Martinazzoli e sopratutto i referendari di Segni. La vittoria dei post Pci sembra certa.

La disfida non è soltanto politica. Berlusconi porta in campo un'altra idea di Italia. È uno scontro culturale, che i suoi avversari finiranno per considerare un'anomalia, una bestemmia, una maledizione, l'incarnazione di un modo di pensare che non dovrebbe neppure avere diritto di cittadinanza. Berlusconi si presenta in realtà come il leader di una rivoluzione, la «rivoluzione liberale» e punta a radunare tutti quelli che non si riconoscono nelle «verità» della sinistra. «Se ho deciso di scendere in campo con un nuovo movimento sostiene in quel discorso di gennaio - e se ora chiedo di scendere in campo anche a voi, a tutti voi - ora, subito, prima che sia troppo tardi - è perché sogno, a occhi bene aperti, una società libera, di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell'invidia sociale e dell'odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l'amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita». È di fatto la nascita di quello che diventerà il centrodestra, con la speranza di costruire anche culturalmente il partito liberale di massa. Non ci riuscirà mai fino in fondo, ma non c'è dubbio che è un punto di svolta, perché ridisegna il destino della seconda repubblica e offre una casa a chi, per qualsiasi motivo, non si riconosce nella cosa rossa. Sembra quasi una sfida antropologica. Sicuramente i suoi nemici la vivono così.

Il pensiero liberale nell'Italia del secondo '900 ha vissuto all'incrocio dei venti, in spazi di frontiera, controcorrente, minoritario. Si porta nello zaino le prediche inutili di Luigi Einaudi, il mammasantismo di Croce, le lezioni inascoltate di Ricossa, il liberal laburismo di Bobbio, le battaglie radicali di Pannella. Ci sono i cattolici liberali che ricostruiscono una lunga tradizione italiana e europea. Ci sono le parole controvento di Antiseri e Martino, che in tempi di conformismo fanno conoscere il pensiero di Popper, Hajek, Mises o di Friedman. Ci sono ragazzi ai confini delle accademie che si innamoreranno dell'anarco-capitalismo, trovando sponde improvvisate nei libertarians americani. Tutto questo troverà un approdo intellettuale in una rivista vicina a Forza Italia come «Ideazione». Berlusconi si pone come un punto di riferimento politico per questo arcipelago culturale, come una speranza, come un cambio di prospettiva, per qualcuno come un'illusione. La «rivoluzione liberale» resterà incompiuta, anche se Berlusconi non ha mai smesso di crederci. Si è ritrovato a combattere troppe battaglie, assediato da una controffensiva giudiziaria. I suoi alleati politici più di qualche volta lo hanno frenato. Non c'è dubbio però che sia stato lui ad allargare la platea del liberalismo. Berlusconi in fondo incarna l'archetipo immaginato da Werner Sombart nei suoi studi sul capitalismo, quella figura di imprenditore che fa dell'avventura una scelta di vita, audace e disinvolto, ma anche pieno di sogni. È lo spirito di Faust che lo porta a desiderare l'infinito. Lo spirito dell'ansia e dell'irrequietezza che anima gli uomini che cercano la libertà.

«Il fermento lo spinge lontano».

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