Liturgia musicale Più emozione che perfezione

È stato triste e confortante insieme lo spettacolo del funerale di Pavarotti. Da tempo immemorabile non si sentiva riconoscere alla musica tanta importanza dalla Chiesa, dallo Stato, dalla società che conta. La grandezza di Luciano Pavarotti sta davvero in questo: aver portato la pura bellezza della voce a diretto contatto con il mondo senza distinzioni e senza filtri; il canto come dono naturale che chiede d’esser goduto, amato, partecipato. Nella gagliarda simpatia, nella cordiale umiltà con cui ha mantenuto la sua autenticità anche in quell’accanita organizzazione mediatica che l’ha portato a raccogliere anche tutti i riconoscimenti che altri grandi della musica e del canto non hanno ricevuto.
Questo clima sincero si respirava a Modena. Non c’era ombra di voglia di esibirsi o di sentirsi importanti nei colleghi di Pavarotti che han cantato per dar commiato a quanto restava fisicamente di lui e per sperare che l’alleanza affettuosa e cordiale della vita professionale non si interrompesse nelle misteriose regioni dello spirito e in quelle più precarie ma ragguardevoli della storia.
Vincendo il groppo in gola, la difficoltà del luogo e delle circostanze, Raina Kabaiwanska, compagna di tante Tosca, ha dato testimonianza d’arte cantando l’Ave Maria dell’Otello, e Andrea Bocelli, una voce amata e cara nel mondo oltre che un tenore in amicizia con Pavarotti, ha intonato l’Ave Verum di Mozart.
Una curiosa liturgia musicale sembrava riflettere la disordinata e passionale apertura a generi diversi del tenore che onorava: il flautista Griminelli ha accompagnato l’Offertorio con le musiche dei Campi Elisi pagani di Gluck da Orfeo e Euridice; la corale Rossini di Modena ha intonato brani con stile sorprendentemente vario.
In una manifestazione così popolare, con tanta gente collegata nella piazza, con mezzo mondo ai teleschermi, si misurava l’importanza delle preghiere cantate e suonate non col codice delle astratte valutazioni estetiche, ma nell’intensità con cui rappresentavano e incarnavano il dolore, lo stupore, la speranza di tutti.
Non esaltazioni, non eccessi: intensità e commozione.

Veniva in mente, in chiesa, quello che scriveva Henry Ghéon, che nel momento della verità, davanti alla morte, si sente di doverci semplicemente accettare gli uni gli altri ed esser grati per quante scintille di grandezza qualcuno di noi è riuscito a rubare a Dio.

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