La candidatura di Massimo D'Alema è caduta: alla fine il centrosinistra e lo stesso presidente dei Ds si sono resi conto che un presidente della Repubblica così marcato politicamente ed espressione di una maggioranza parlamentare così risicata, sarebbe apparso offensivo all'Italia. Per qualche giorno si è giocato con le false indiscrezioni sul vero pensiero di Silvio Berlusconi. Alla fine si è dovuto prendere atto di quella che era la posizione del centrodestra. E non si è potuto non tenerne conto. Anche perché su questa posizione, sull'esigenza di una soluzione non partigiana per il Quirinale, convergeva il pensiero di gran parte d'Italia: da ambienti della Chiesa cattolica a quelli dell'imprenditoria, a larghi settori d'intellettualità. Dopo la striminzita supremazia strappata con il voto del 9 aprile, non c'era la forza per reggere un dissenso così diffuso.
Ragionando l'esito del confronto sulla sua possibile candidatura, si può ora dire che l'errore di D'Alema è stato affrontare questa sfida senza lanciare l'unico vero segnale di pace oggi per lui possibile: l'offerta al centrodestra della presidenza del Senato. La pace si fa con concessioni reciproche; altrimenti è una resa.
Adesso, caduta l'opzione D'Alema, il centrosinistra presenta una nuova candidatura «unica», Giorgio Napolitano: che senza dubbio dal punto di vista formale è diversa da quella del presidente dei Ds. Si tratta di un senatore a vita, già presidente della Camera, senza incarichi di partito. Qualche osservatore malizioso può sostenere che da un certo punto di vista - e si è visto negli anni del giustizialismo - Napolitano per il suo carattere per così dire «prudente» dia ancora meno garanzie di fronte a momenti difficili di quelle che poteva offrire un duro come D'Alema. Comunque è evidente il diverso carattere politico della nuova candidatura: non siamo di fronte a un leader di partito.
Non sfugge, però, come anche la scelta di Napolitano sia inquadrata nella stretta logica spartitoria delle istituzioni che il centrosinistra vuole imporre al Paese: uno di Rifondazione alla Camera, uno della Margherita al Senato, uno dei Ds al Quirinale. Il problema di dare un «posto» ai Ds è più importante dell'enorme problema di dare più legittimità a una maggioranza traballante, inesistente nel voto popolare per il Senato e di soli 24mila suffragi in quello per la Camera. Un governo con queste basi parlamentari ed elettorali dovrebbe offrire all'opposizione, che pure si è detta disponibile a votare un uomo della maggioranzinina, una rosa di nomi o comunque una personalità estranea alle logiche interne della coalizione.
Ma non si ha coraggio di farlo: il problema di dare un «posto» ai Ds, precede tutto. Si straparla di partito democratico, di un Prodi premier incondizionato dai mercanteggiamenti, di abbandono delle logiche da padroni delle istituzioni: ma si pensa solo a come non irritare i Ds che hanno ricevuto «troppo poco». C'è bisogno di un «bisturi» per incidere nel cattivo andazzo delle prime settimane della vittoria del centrosinistra (spartizione delle Camere, mercanteggiamenti sui voti a Franco «Francesco» Marini, proposte di ministeri secondo la logica del vecchio Cencelli) e invece tutto quello che si riesce a tirare fuori è un po' di «belletto»: Napolitano al posto di D'Alema.
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