Per nessuna donna è facile parlarne. Ma in questo caso al dolore che non accenna ad andarsene, si aggiunge la paura, il terrore di ritorsioni e il timore di compromettere una causa legale già in corso. Allora chiameremo la vittima di questa aggressione Lucia e poco importa sapere il numero del treno diventato teatro della violenza, o il giorno esatto in cui è accaduta. Conta la storia, ambientata in un giorno di lavoro iniziato come tanti altri. Lucia, da anni capotreno, passava da una carrozza allaltra per controllare i biglietti. Fino alla vettura numero sei. Il numero lo ricorda bene, come il volto di quei ragazzi: tutti giovani, sui venticinque, con la pelle scura, probabilmente magrebini. Prima i soliti commentini: «Come sei f...», «Dai dicci il tuo nome...», «Fermati con noi...», subito dopo i palpeggiamenti e quelle mani sulla divisa incapace di difendere le donne che la indossano. Uno spintone e la sensazione di essere accerchiata. Paura e impotenza e la voglia di urlare. Unica arma, il cellulare e la prontezza di far partire una chiamata al collega in servizio sullo stesso treno. Una telefonata che probabilmente lha salvata da unesperienza che poteva terminare con un finale ancora più nero. Una chiamata costata al collega tre costole incrinate. Arrivato nella carrozza, infatti, il ferroviere è stato aggredito dai balordi che avevano puntato Lucia.
«Le donne rappresentano più del 40 per cento del personale di bordo - spiega il responsabile Fit-Cisl Leonardo Graziano - e ogni giorno vanno a lavorare come se partissero per il fronte.
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